Continua la pubblicazione, a puntate, del volume “ Sono giovani i santi”, di fra’ Gianluigi Pasquale, edito da “La Fontana di Siloe” di Torino. Oggi il ritratto di fra’ Claudio Granzotto.
Scultore e cultore della bellezza francescana
«Quando sarò ben disposto e preparato in questa vita di amore e di zelo, allora chiederò al buon Dio un’altra grazia ed è il dono più prezioso che Lui possa fare alle sue anime fedeli ed è questa: essere crocifisso nel corpo e nell’anima consumandosi incessantemente nel suo martirio d’amore» (Fra Claudio, Metodo di vita, n. 40, in Gli Scritti, LIEF, Vicenza 2002). È, questa, una delle mirabili espressioni contenute nella edizione critica di tutti gli scritti del beato francescano fra Claudio Granzotto, edita con minuziosa acribia filologica e redazionale dal vice postulatore padre Fabio Longo Ofm. Come abbiamo recentemente constatato per il nostro san Leopoldo, è anche dagli scritti che emergono quei frammenti di santità che noi ricerchiamo negli altri. In questo caso ci troviamo dinanzi all’effige di un autentico figlio di san Francesco che, nel culto e nella preghiera, ha pazientemente sedimentato la propria cultura, elevandola a scultura e ad arte, rappresentando uno di quei casi in cui i doni dell’umana natura vengono sublimati al meglio, anche grazie all’obbedienza prestata ai superiori e alla saggezza di questi nel porli a servizio della Chiesa e delle arti. Ma chi era questo «frate scultore», proclamato beato da san Giovanni Paolo il 20 novembre 1994.
Un’infanzia operosa
Il 23 agosto 1900, a Santa Lucia di Piave (provincia di Treviso e diocesi di Vittorio Veneto), Antonio Granzotto e Giovanna Scottà sorridono al loro settimo figlio, arrivato come una benedizione. Al fonte battesimale gli viene imposto il nome di Riccardo. Fin da fanciullo l’idea dell’arte fa da scenario a tutta la sua esistenza: lo soggioga, quasi. Alla scuola elementare raccoglie più insufficienze che lodi perché occupato a riempire i quaderni di disegni e a dar forma, con la creta, a rudimentali sculture. La maestra è delusa per lo scarso rendimento di questo singolare allievo. I compagni, invece, ne sono entusiasti. Lo ritengono un piccolo genio. Ammirano i paesaggi da lui dipinti con colori sgargianti e ridono un po’ nel vedere il proprio volto o quello della maestra ritratti nelle caricature di Riccardo. I pupazzi da lui modellati in creta, poi, si adattano benissimo ai loro giochi. Quando ha nove anni, gli muore il papà all’ospedale di Conegliano (TV) per setticemia. Riccardo, benché frequentasse soltanto la terza elementare, viene tolto dalla scuola per essere avviato a varie mansioni lavorative, al fine di mantenere la numerosa famiglia: manovale edile, calzolaio, apprendista falegname. Ma quel fanciullo, dai vividi occhi azzurri, aveva solo nove anni e pochissime forze fisiche a disposizione per sostenere quei ritmi di lavoro.
Tra il cantiere edile e l’arte
A causa degli eventi bellici della Prima guerra mondiale, tutti i fratelli Granzotto vengono chiamati alle armi, compreso Riccardo, il 3 aprile 1918. Presta servizio militare a Forlì, a San Mauro di Romagna, a Sant’Arcangelo di Romagna e infine a Pisino d’Istria, dove arriva dopo l’armistizio (4 novembre 1918). Nel febbraio 1919 rientrato in paese e riprende il lavoro di muratore presso il fratello maggiore. Il 1° dicembre 1919 è nuovamente richiamato alle armi, a Forlì e Roma. Nel 1920 parte per l’Albania, a disposizione del contingente militare italiano. Dopo il congedo, ottenuto nell’ottobre 1921, Riccardo torna a Santa Lucia di Piave con la possibilità, questa volta, di frequentare la scuola serale d’arte e mestieri di Conegliano. Un bell’impegno dopo nove, dieci ore lavorative al giorno come manovale nel cantiere del fratello Giovanni, in un certo senso il «capofamiglia». Passo dopo passo, benché a fatica e non senza rinunce, Riccardo riesce a ottenere da privatista la licenza elementare, il diploma di scuola superiore fino ad approdare alla Regia Accademia di Belle Arti di Venezia, frequentando la facoltà di scultura. A dire il vero, a Conegliano Riccardo ha la fortuna di incontrare due valenti artisti, il prof. Vittorio Celotti e, soprattutto, l’architetto prof. Domenico Rupolo, che fiutano in lui un’innata predisposizione alla scultura. A Santa Lucia di Piave, infatti, apre un laboratorio dove allestisce lavori di rilevante spessore artistico. Le opere più significative di questo periodo sono una bella acquasantiera scolpita per la chiesa di Santa Lucia di Piave, dove un’esile figura della Vergine preme su un poderoso demonio dal ghigno disperato e la celeberrima La Volata, che riproduce un colossale atleta mentre si appresta a lanciare la palla, statua che permette al prof. Granzotto – così viene chiamato adesso il nostro Riccardo – di vincere il concorso nazionale di scultura per la Provincia di Treviso. Piuttosto amaro è, però, il boccone quando si vede recapitare a casa una lettera da Roma che lo informa della decisione presa dal Partito Fascista di non far rientrare La Volata tra le statue del Foro Mussolini (l’odierno Foro Italico). E, tuttavia, nulla accade a caso.
Una provvidenziale partita a carte
All’inizio dei suoi trent’anni qualcosa inizia a muoversi nel cuore del nostro scultore. Chi li ha provati sulla propria pelle, sa che questi non sono momenti facili. Anche se, prima o poi, giunge un angelo custode. Infatti, il primo ad accorgersi del tramestio interiore è l’amico arciprete, confidente e padre spirituale, mons. Vittorio Morando, riscontrando in Riccardo evidenti segni di vocazione contemplativa. Dopo due primi tentativi, uno alla certosa di Pavia e un altro all’abbazia di Montecassino, Riccardo entra in affanno di fronte ai due secchi rifiuti, peraltro motivati: «Per entrare in monastero ci vuole la vocazione a fare il monaco, null’altro che il monaco». Succede, però, che per la Quaresima del 1932 il parroco di Santa Lucia, mons. Morando, invita un predicatore francescano, padre Amadio Oliviero. È il sabato sera della IV Domenica di Quaresima: rientrando in canonica, il parroco propone a padre Amadio una partita a carte con due suoi parrocchiani: il prof. Granzotto e il pittore Giuseppe Modolo. È grazie a questa partita a carte e all’ilarità del predicatore francescano, che Riccardo comincia a pensare seriamente alla vita francescana, lasciando successivamente scritto a padre Amadio quello che è il suo Metodo di vita fin dall’inizio: «Se non si è buoni e raccolti, non si può fare dell’Arte Sacra. Bisogna sentire ed è allora che si può trasfondere nel marmo il buono e il bello».
Fra Claudio e la «sua» grotta di Lourdes
L’anno successivo, il 7 dicembre 1933, il prof. Riccardo Granzotto veste l’abito francescano nell’isola di San Francesco del Deserto nella laguna di Venezia, come postulante laico, prendendo il nome di «fra Claudio». Ancora nella veste di postulante, viene subito destinato dai superiori a Chiampo (VI) con l’incarico di costruire una grotta simile a quella di Lourdes, progetto che fra Claudio riesce a portare a termine senza non poche difficoltà, essendo allo stesso tempo progettista, costruttore, architetto, muratore e manovale. È proprio quel progetto che lo rende famoso: esso riproduce nelle dimensioni, nella forma, in tutti i minimi particolari la grotta di Lourdes. La statua della Vergine Immacolata, invece, viene scolpita da un blocco di niveo marmo di Carrara. È dalla preghiera, quella di intere notti trascorse in adorazione – come scrive fra Claudio in una cartolina – che sgorga l’ispirazione: «La Madonna ce l’ho nella mente», effige scultorea collocata nella grotta il 29 settembre 1935, giorno della solenne inaugurazione. Ed è proprio osservando questa dimensione contemplativa, peculiare all’intera esistenza di fra Claudio, che si coglie l’altra caratteristica della sua spiritualità, forse la meno conosciuta e, tuttavia, quella più genuinamente francescana. Rileggendo i fatti, essa diventa adesso più chiara.
La «scultura dello spirito» vale di più
All’inizio dell’inverno dello stesso anno, il nostro salpa nuovamente per l’isoletta di San Francesco del Deserto dove compie l’anno canonico di noviziato ed emette i voti l’8 dicembre 1936. Nel silenzio incusso di quest’isola in mezzo alla laguna di Venezia, un autentico romitorio lontano dal chiasso della città, la fisionomia interiore di fra Claudio va delineandosi nitidamente: l’artista della materia diventa artista dello spirito. Gli nasce timidamente nell’animo il desiderio della contemplazione. Trascorre molte ore della notte davanti al tabernacolo. Fra Epifanio Urbani, chierico di teologia, non avendo dubbi che fra Claudio sia molto avanti nella via della contemplazione, facendosi coraggio gli chiede: «Quanti libri occorre leggere per imparare il segreto della preghiera?». «Uno solo, il Crocifisso!» risponde fra Claudio, senza esitare. Non è difficile intuire come il giovane francescano abbia, oramai, già compreso, alla pari di san Francesco, il «segreto della storia», che consiste nel lasciarsi modellare da Gesù, il più bello tra i Figli dell’uomo (Sal 44,3) per essere credibili testimoni del battesimo e per permettere che le ore pulsino di atomi di eternità. Si è giunti, intanto, negli anni dell’altra grande catastrofe: la Seconda guerra mondiale. Ed è in questo contesto che fra Claudio si lascia coinvolgere dalle pene e dalla miseria di tanta gente, tuffandosi nell’attività della questua in compagnia di fra Carlo. Allora, da veri francescani, si era sempre in due. Per provarsi nella più esigente «arte» di umiliarsi, chiede e ottiene dai superiori di andare alla questua perfino a Santa Lucia di Piave, il paese natio. Ovviamente non mancano i sarcasmi, ma sono proprio quelli che egli desiderava.
«Per l’Assunta me ne vado»
Fra Claudio continua a lavorare molto, ma negli ultimi tempi appare sempre più debole, deperito, persino barcollante. Nell’agosto 1947, dopo un accurato esame, all’ospedale di Arzignano giunge una diagnosi tremenda: è affetto da un tumore al cervello. È una malattia che gli tortura il cervello, offuscandogli la luce radiosa degli occhi, ma non gli toglie la visione interiore di Dio. Prega con le palpebre socchiuse, unito a Gesù Cristo sofferente, fino a poter predire la sua morte: «Per l’Assunta me ne vado». Morirà proprio il 15 agosto 1947. Fra Claudio non ha nemmeno cinquant’anni. Personalmente sono convinto che, anche nello scrivere, nell’arte figurativa o musicale, si intuisce se, chi lascia «la traccia», si è innamorato del Signore Gesù oppure è guidato da altre motivazioni. Non è meramente un’affermazione teologica, ma prima ancora di origine francescana, almeno se leggiamo gli Scritti del Poverello di Assisi e pensiamo al suo Presepio di Greccio. Ed è proprio questo, se ho visto giusto, il messaggio che fra Claudio Granzotto lascia per il nostro oggi: ognuno di noi può trasformare la realtà in poesia (che, in greco, s’intende il plasmare la creta), in bellezza, soprattutto se in essa si innesta almeno un frammento di Colui al quale San Francesco si rivolgeva con il «Tu sei bellezza» (cf. Lodi di Dio Altissimo, in Fonti francescane, n. 261).