L’audacia di Paolo
“Vi ho scritto con un po’ di audacia” (1Rm 15, 15)
Quasi, si scusa, Paolo, nella sua lettera ai Romani. Per la sua audacia. Quella stessa audacia che gli salvò la pelle; più volte. Ma che fu, anche , motivo di frizione, con più d’uno dei suoi collaboratori. Anche per i più fidati, non era semplice avere anche fare con l’irruenza di Paolo.
Pregi e difetti
Anche per noi, forse, è così, talvolta. Siamo convinti di avere a che fare con un difetto, di cui scusarci. Invece, spesso, proprio ciò che pare essere una fragilità si rivela infine come il più prezioso tra i punti di forza. L’ostinazione pertinace è vista come indebita cocciutaggine. Eppure, la caparbietà, guardando a ritroso, non si è rivelata utile solo per i progetti più ambiziosi, ma anche per gli azzardi che chiedevano di unire cuore, mente e volontà in un’unica sinfonia d’intenti. Come per una scalata insidiosa e affascinante: non basta allenamento, se mancano determinazione e forza di volontà.
Unico fondamento, Cristo
«Mi sono fatto un punto di onore di non annunciare il Vangelo dove era già conosciuto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui» (1Rm 15, 20)
Altri – lo racconta lui stesso – ci tengono a far pronunciare il proprio nome, quasi un sigillo di garanzia. Paolo sa di essere l’ultimo arrivato. Il suo moto è l’esatto opposto: vuole assicurarsi di essere pervicacemente, indefettibilmente fedele solo e soltanto a Cristo. Non ci tiene a mettere la propria bandiera sulla dottrina di Cristo, né a crearne una propria (anche se poi, naturalmente, com’è inevitabile, ciò succederà). È interessante, però, notare come il suo intento rimanga ostinatamente l’esatto contrario: lasciare che emerga Cristo. Un promemoria ancora attuale, come ebbe modo di sottolineare, di recente, Leone XIV:
«Sant’Ignazio di Antiochia (cfr Lettera ai Romani, Saluto), […]condotto in catene verso questa città, luogo del suo imminente sacrificio, scriveva ai cristiani che vi si trovavano: «Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo» (Lettera ai Romani, IV, 1). Si riferiva all’essere divorato dalle belve nel circo – e così avvenne –, ma le sue parole richiamano in senso più generale un impegno irrinunciabile per chiunque nella Chiesa eserciti un ministero di autorità: sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato (cfr Gv 3,30), spendersi fino in fondo perché a nessuno manchi l’opportunità di conoscerlo e amarlo»[1]
Un senso di gratitudine
Ci sono difetti che paiono ostacoli. Eppure, talvolta è tramite essi che passa la vita. L’amore. L’incarnazione di Dio è anche questo. Dio che ci santifica, con la sua grazia, tramite le fragilità umane. Senza una persona fastidiosa, non si può esercitare la pazienza. L’incapacità di frenare la lingua consente ad altri di essere magnanimo. Del resto, ebbe a notare padre Ambrogio, nel suo Esamerone, che Dio non si riposò prima del settimo giorno, perché solo con il settimo giorno l’abbondanza del Suo amore aveva trovato “qualcuno da perdonare”. Ecco perché, ogni fragilità diventa – anch’essa – motivo di gratitudine: perché è opportunità d’amore.
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Rif. letture festive ambrosiane, nella Domenica dopo Dedicazione (Rm 15, 15-20; Mt 28, 16-20)
[1] Leone XIV, prima omelia, 9 maggio 2025





