Sono le parole che, da tantissimi anni, adoro ascoltare appena dopo la lettura del Vangelo dell’Epifania: quello che parla di comete, Magi e di macellai come Erode. Sono parole che assomigliano ad un “allegato” al Vangelo, identiche ad un file in calce ad un’email. Parole che può leggere il prete, un diacono o un cantore: quest’ultimo, quando capita, sa renderle ancora più avvincenti. In rosso, nel lezionario, sta scritto: «Annunzio del giorno di Pasqua». La liturgia, nel giorno dell’Epifania, annuncia ai suoi fedeli la data più attesa, quella della Pasqua. Pur essendo una data ballerina (“dipende dalla luna” che ha, letteralmente), resta sempre la più importante, il perno dal quale scaturiscono, come da una sorgente d’altissima quota, tutti gli altri giorni santi: le Ceneri, l’Ascensione, la Pentecoste, la prima domenica d’Avvento. È l’annuncio più sconvolgente: «La gloria del Signore si è manifestata e sempre si manifesterà in mezzo a noi fino al suo ritorno». La gloria – la bellezza, il volto, il viso sublime – apparso la prima volta nella grotta di Betlemme (la prima parrocchia di Gesù) – non scomparirà più, ma continuerà a manifestarsi in mezzo a noi: «Il Verbo di Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Una volta trovata la terra nella quale costruirsi la dimora, non ci pensa più a traslocare altrove.
A Betlemme, chi ebbe la gioia di vederlo nel volto quella volta, lo vide dal vivo: c’è da crederci, che mai più se la scordarono tutta quella concentrazione di bellezza. Fu il punto più alto, l’apice, del mistero della salvezza: invece che stare sul bordo della scarpata dove siamo caduti e dirci come fare per risalire, scelse di scendere pure lui nella scarpata, sporcarsi le sue scarpe da ballerina di fango e, tenendoci la mano, provare a risalire assieme a lui. Lui con noi. Quella fu la prima volta, la più appariscente, l’evidenza assoluta grazie alla quale più nessuno potrà dire ch’è perduto per sempre: se vorrà – “Dio che ti ha creato senza di te non potrà salvarti senza di te”, bisbiglierebbe Agostino d’Ippona – potrà salvarsi, dandogli la mano, accettando la sua mano. Questa operazione di salvataggio, che chiamiamo mistero di salvezza, la potremmo vivere e ricordare, come un dolcissimo ricordo – è l’epicentro della bellezza di queste parole annunciatrici – «nei ritmi e nelle vicende del tempo» ci ricorda la liturgia. A pensarci per due millesimi di secondo, è da impazzire: il tempo di Dio, come in una trasfusione di sangue, si è confuso dentro i tempi dell’uomo. L’eterno nel mondano, il sacro nel profano, Dio nell’uomo: “Chi vorrà celebrare e ricordare la salvezza – traduco la liturgia – non avrà un calendario riservato, ma dovrà servirsi del calendario dell’uomo”. Con i suoi ritmi ed eventi.
E’ della natura del mondo che tutte le cose cerchino il ritmo, trovino in quel ritmo una sorta di pace: “Hai sentito il ritmo della pioggia?” chiedeva il nonno come fosse un gioco. Non il rumore della pioggia, ma il suo ritmo! Sembra nulla il ritmo, eppure «ha qualcosa di magico: ci fa persino credere che il sublime ci appartenga» (W. Goethe). Il ritmo lo si può percepire con l’orecchio, nell’alternarsi di suoni e pause; con l’occhio, nell’alternarsi di luce e ombra, azioni e pause; con il pensiero. Può essere costante, intermittente, veloce, alterato, frenetico, stanco, indiavolato. In questo ritmo (ac)cadono le vicende – «nei ritmi e nelle vicende» – che compongono l’esistenza: la lunghezza della vita, a pensarci, verrà calcolata dal numero di giorni diversi che uno riuscirà a vivere. Che la salvezza cristiana si giochi in quest’intreccio mondano di ritmi e di eventi è un qualcosa che fa impazzire il cuore, almeno il mio: più nessun giorno, più nessuna sfumatura dei giorni, potrà più dirsi inutile agli occhi di chi crede. Dio, dai fatti accaduti a Betlemme in poi, abita dentro noi, nei nostri ritmi e nelle nostre vicende. Nelle vicende più sante: storie di carità, di orazione, di martirio. Nelle più squallide: storie di sangue, omicidi, molestie. Nei ritmi gregoriani, liturgici, sacri e in quelli bastardi, dannati, sconci. Non per nulla nelle celle di clausura degli eremi e in quelle d’isolamento del 41bis delle galere il giorno di Pasqua è lo stesso. Perchè se il tempo può essere un problema, il ritmo rimane una scelta.