Stazionava lì da chissà quanti anni. Muta, silenziosa, innocua: appena dopo il pesante cancello che delimita il mondo di fuori dal mondo di dentro. Lo spazio della libertà e la zona della prigionia. Quasi a dare il benvenuto a chi varcava quella soglia. Ambigua soglia di civiltà.
“Prego, nome e cognome?” – chiede l’agente preposto al controllo degli ingressi. Il nome scarabocchiato nel freddo registro: per sempre, ad imperitura memoria. Come traccia di un passaggio di là. Nel mondo degli uomini ristretti. Degli uomini ombra.
Subito dopo appare lei, stretta e costretta tra mura di ferro e di cemento. Rattrappita, secca, sgangherata nel suo portamento. Alquanto spinosa. Tante stagioni, tanti ingressi, altrettanti visi imbarazzati. Qualcuno cinico, forse spietato.
“Benvenuto! – sembra porgere al viandante di passaggio – Memorizzati la mia faccia. Se hai bisogno, chiedi aiuto!” Sincera, quasi affettuosa, amabile: piccolo sprazzo di natura dentro un mondo cementificato. Anche nell’anima.
Lo spazio di due mattonelle: un sottovaso e un vaso vestito di polvere. E’ una pianta rattristatasi nel tempo: le passano accanto e non la badano, i pesanti scarponi delle guardie la spostano senza degnarla di un’attenzione, lo sguardo distratto dei viandanti ne banalizza la vergine età di un tempo. E’ una pianta secca, spinosa, disgustosa: ostico immaginarla pennellata di colori e vestita di fiori.
L’ho sfiorata per un pugno di mattine, come si sfiora la crosta di ciò che esiste. Eppure lei sembrava non prendersela per quel disprezzo travestito di fretta. In piedi, dritta a coccolare il ferro della porta, muta presenza di un mondo muto.
Dentro il caldo d’agosto infuria sulle carni segregate nelle celle. E sulle piante prigioniere del cemento. Solo la vastità immensa del corridoio – intervallato da cancelli possenti e solitari – sembra tagliare l’afa di quest’anno. Appena dopo il cancello, una donna col bagnino in mano. Si chiama Pina, è un agente della Polizia Penitenziaria: quelli che defendere spem munus nostrum lo hanno stampato sulla divisa.Qualcuno nel cuore. Sta annaffiando la pianta secca.
“Guarda che meraviglia – mi sussurra felice -. Tre mesi fa era morta, adesso quasi germoglia”. Mi indica un invisibile anticipo di germoglio custodito tra spine gigantesche: serviva quasi una lente d’ingrandimento per darle ragione. Tanto secco, un’invisibile puntino di verde, un bagnino d’acqua in mano. Guardo la pianta, guardo la Pina: guardo quell’imbarazzante attenzione di donna.
“Mi ci sono affezionata. Ogni mattina le porto un po’ d’acqua”. E la versa con cura: attende che scenda nella terra, ne pulisce il vaso, la risistema come dovesse farla sfilare su una passerella. Lei è una donna dalle sembianze evangeliche.
Ne approfitto di una disattenzione fugace: mi nascondo in una saletta adiacente. Niente telecamere in quell’angolo di prigionia: io e lei, il viandante e la pianta secca, l’imbarazzo e la Natura. Lei è lì, appena dietro il cancello: sparge benvenuti con spassionata gratitudine. Li vede entrare tutti, uno ad uno.
La immagino con una memoria di ferro. Dentro quella corteccia secca di dolore, si sono andati registrando mille suoni: le sirene delle camionette e il singhiozzo dei detenuti, le risa della gente e le chiavi nei cancelli, il suono del citofono e le urla della Polizia, il bip del metal detector e le bestemmie dei viandanti. Suoni e colori: quelli delle divise e dei vestiti, dei capelli e della barba, dei berretti e delle manette. Degli occhi, delle scarpe, degli sguardi. Suoni, colori, nostalgie: del amare di Calabria, delle arance di Sicilia, del volto della donna e della mano di un bambino. Dell’azzurro del cielo e della tempesta marina, del gusto di casa e della brezza di montagna. Dei fiori, delle stelle, dei voli delle rondini. Della libertà. Lei vede il mondo dal basso, eppure lo chiama per nome. Dai passi ricostruisce le storie e le destinazioni: passi lenti, pesanti, tristi. Furtivi, di ritorno, in andata. Verso il fuori, verso il dentro. Desti, mattutini, feriali e domenicali. I passi e le ruote: dei carrelli che portano cibo, di quelli dei medicinali, di quelli degli aggiustatori. La vita è un trambusto.
Tanti sono distratti, lei è attentissima: è la memoria storica di un carcere di massima sicurezza del Nord-Est. Ti parla se le parli, ti racconta se l’accosti, t’affascina se la contempli. Eppure è solo una pianta secca: “Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: saprete che io sono il Signore” (Ez 37,6).
Pina l’annaffia testarda: “un giorno fiorirà” – si giustifica con chi ne irride la femminile speranza. Oggi, ieri, l’altro ieri. Domani. Acqua e attenzioni.
Mi ci ero affezionato alla fine.
“Buona giornata, don!” – e sembrava quasi chinare il capo al mio passaggio. Una tavolozza di colori in un mondo in bianco e nero.
Come riposta la degnavo di un sorriso. Pungeva, ma i suoi racconti stregavano. Racconti di uomini e di ferite, di croci e di sepolcri spalancati, di terre e di stagioni. Di innocenti, di colpevoli e di miscredenti. Di truffatori, di imbianchini e di pittori. Mi narrava storie condite di amore, senza giudizio, al netto delle interpretazioni. La toccavo e lei mi tratteneva: come a far entrare nelle vene quello sguardo di misericordia verso i falliti, gli ultimi, la periferia. Mi narrava di Vincenzo, di Luciano e di Valentino. Di Isaak, di Boateng e di Mario. Della banda, del branco, dell’associazione. Poche mattine mi parlò di gente cattiva: per lei, tutt’al più, erano storie infelici. Treni deragliati, binari morti, esistenze spezzate.
Acqua e bagnino, mattini e confidenze, piante e uomini. Era una pianta che raccontava vita. Che ammaestrava sulla vita.
“Togliete quella pianta. Ormai è morta!” L’ordine venne dall’alto: la pianta venne tolta. Al suo posto due fredde mattonelle e una vecchia porta ferrosa.
Stamattina sono entrato e più non c’era. Ho lasciato nome e cognome: poi mi son voltato a destra e a sinistra e mi son sentito triste. Solo, dentro un mondo sovraffollato: si può essere soli anche nel mezzo del caos.
Si apre il cancello e lo oltrepasso. Senza il mio feriale buongiorno.
Quella pianta era una presenza imbarazzante. Forse un anticipo di umanità. Là in fondo urla scomposte di piante secche: tanti accenti, tracce di cicatrici, aria di contesa. Ci sarà qualcuno col bagnino in mano anche laggiù?
M’inabisso nel ventre della galera con addosso la nostalgia dell’acqua in un bagnino: strumenti primordiali della mia terra di montagna.
Nella mia memoria giace quella pianta.
L’imbarazzo di quella pianta.
Eppure stava per fiorire.