Ci sono tanti episodi del Vangelo che ormai quasi sappiamo a memoria perché ricorrono nella liturgia e quindi sono abbondantemente commentati. Quello che propongo questa settimana è proprio uno di quelli: le nozze di Cana (Gv 2). Tutti lo conosciamo e pertanto non ve lo racconto.
Quante volte abbiano sentito un commento sulle anfore per l’acqua, sulla Madonna che le mostra a Gesù chiedendogli implicitamente di intervenire (come se quasi Gesù non si fosse accorto che mancava il vino), sulla risposta un po’ stizzita di suo figlio, su quanto vino avevano bevuto gli invitati alle nozze eccetera. Tutte cose verissime, ma io voglio andare un po’ oltre, andare “dietro le quinte” della vicenda svoltasi a Cana di Galilea. In maggior parte i miracoli di Gesù avvengono davanti a una folla che segue gli avvenimenti e vede come Gesù opera. I testimoni pertanto sono quasi sempre moltissimi.
A Cana invece solamente i servi si sono accorti di ciò che stava avvenendo e di chi aveva mutato l’acqua in vino. Non lo sapevano il direttore della mensa, gli sposi e gli invitati. Una vicenda, quella di Cana, di cui tutti i presenti vedono e gustano il lato esteriore, quello visibile, vedono gli effetti ma non ne conoscono le cause. Ogni vicenda umana ha quindi un lato illuminato e uno nascosto e spesso quello nascosto è la causa di quello che esternamente vediamo.
Che cosa abbiamo da imparare da questo brano evangelico? L’attenzione a rispettare sempre, in ogni conoscenza delle persone che accostiamo, tutto ciò che per loro è “dietro le quinte” e che noi non conosciamo. Questo ci aiuta a evitare giudizi affrettati e parziali, a dire parole o a fare gesti non opportuni, che fanno più male che bene.
Una seconda riflessione è su una parola che l’evangelista Giovanni utilizza e sulla quale spesso corriamo sopra senza approfondirla. Troviamo la parola proprio nella parte finale del racconto quando Giovanni tira le fila di ciò che è avvenuto e del perché è avvenuto. La parola è “segno”. Che cosa significa e soprattutto che significato ha per l’evangelista Giovanni? In qualche traduzione o in qualche commento superficiale è trasformata in miracolo, tanto è vero che normalmente si parla del miracolo dell’acqua e del vino. Il miracolo è qualcosa di inaudito, che suscita meraviglia e stupore, fuori delle regole naturali e quindi inspiegabile. Normalmente ci fermiamo a questa definizione. Ma per Giovanni l’evento di Cana va oltre il miracolo come stupore o stranezza e diventa un “segno”. Che cos’è un segno? È un fenomeno da cui si possono trarre indizi, deduzioni, conoscenze, approfondimenti; ma è anche un evento reale e rimanda a un’altra realtà che costituisce il suo significato; e ancora è relazione tra l’evento e il suo contenuto, tra il significante e il significato. In parole povere, il segno deve far entrare in chi lo osserva un qualcosa di ben più grande del segno stesso. Il segno non può lasciare né indifferenti né solamente stupiti per lo straordinario, ci spinge invece verso un’altra realtà concreta. Insomma, il segno ci parla.
Nelle nozze di Cana l’acqua trasformata in vino rimanda a chi può trasformare il gusto di un bicchiere di acqua in uno di vino, a chi può trasformare una vita mediocre, senza senso, senza una meta, in qualcosa di vivace, pieno di significato, di speranze e di incontri. Abbiamo pensato allora ai miracoli di Lourdes, di Loreto, di Fatima, di Pompei, di Siracusa, di Caravaggio? Siamo stati appena stupiti per gli eventi straordinari o ci siamo anche chiesti che significato avevano per ciascuno di noi? Se quest’anno faremo un pellegrinaggio soffermiamoci di fronte ai miracoli avvenuti nei luoghi che raggiungeremo e chiediamoci che cosa ci dicono, che risposta chiedono a noi, come possono cambiare in meglio la nostra vita. In altre parole, come possono convertirci. I miracoli quindi sono stati fatti per ciascuno di noi e si possono ripetere, in altra forma: anche in noi il Signore, nell’incontro nel Santuario, può trasformare la vita un po’ acquosa in vino gustoso e spumeggiante.