C’era una volta il perdono e l’uomo credeva che per vivere il confronto quotidiano con gli altri fosse indispensabile, anche se qualche volta scomodo. C’era la legge, certo, ma i tribunali e gli “azzeccagarbugli” – come li chiama Alessandro Manzoni – servivano quando le cose si facevano serie, quando c’erano di mezzo la terra, i signori o addirittura il re; ed erano dolori. Per tutto il resto si facevano bastare il buonsenso e il Vangelo, «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» e il perdono diventava non un dovere, ma un bisogno sociale.
Il perdono non è più di moda
È funzionato così per secoli, eppure la contemporaneità ci insegna che il perdono non è più di moda.
Ci siamo arrivati per gradi, passando attraverso un secolo, quello scorso, in cui i totalitarismi non si sono più accontentati di conquistare il mondo: hanno preteso di cambiare l’uomo. Le ideologie si sono trasformate in moderne idolatrie e nel tentativo di forgiare il superuomo hanno stabilito che il perdono non era funzionale al loro scopo.
In una società totalitaria il perdono è uno degli atti più rivoluzionari che si possano concepire, il tiranno al massimo corregge o cancella, anche quando si tratta di persone.
Siamo nel tempo del turbocapitalismo
E oggi? Nel tempo del turbocapitalismo è più facile lasciarsi alle spalle, andare oltre, che perdonare. Quell’amico mi ha tradito? Lo cancello. Nel vero senso della parola, anche perché spesso non lo conosco neppure di persona, è solo un volto sui social network. Così tutto diventa indefinito, i giorni scorrono gli uni uguali agli altri e le persone e gli affetti si trasformano in comparse su un proscenio sempre più vuoto.
L’anima è la parte più vera di noi
«E dimmi, l’anima come sta?» avrebbe chiesto don Bosco. Quella si mortifica, ma non può abbandonarci. Chi crede sa che è l’unica cosa di cui non possiamo disporre pur appartenendoci. L’anima è la parte più vera e trascendente di noi, non si può né vendere né comprare, al massimo tradire. Risponde a leggi più antiche e giuste di quelle dell’uomo, perché derivano direttamente da Dio.Quello che nel Nuovo Testamento «rimette i nostri debiti» se noi li sappiamo «rimettere ai nostri debitori».
Perdonare significa assolvere
Perdonare significa assolvere chi ci ha offeso. Attraverso il perdono ricostruiamo il nostro contatto con l’altro, offriamo agli altri una sorta di assoluzione per un loro gesto, una parola, uno scritto. Qualcosa che ci ha offeso, che ha tradito la nostra fiducia, che ha limitato la nostra libertà, riconoscendo implicitamente le nostre stesse fragilità e riconquistando la nostra umanità. «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso» è stata la frase simbolo dell’Anno Santo della Misericordia dello scorso 2016.
La misericordia è un nome di Dio
Anche la misericordia è un nome di Dio, come la santità: «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste». Gesù chiede ai suoi discepoli di diventare segno, canale, testimoni della sua misericordia.
Ma non c’è solamente l’invito pressante di Gesù a spingerci a perdonare: farlo significa migliorare se stessi e gli altri, perché l’esperienza dell’offesa può essere anche una grande risorsa. Perdonare fa bene alla nostra vita e a quella degli altri, se è un’esperienza vissuta in modo maturo serve a costruire un nuovo legame tra chi perdona e chi è perdonato.
Ci illudiamo di essere invincibili
Se oggi è così difficile perdonare, se oggi il perdono viene preso per debolezza, è perché non brilla in noi la consapevolezza del nostro peccato, della nostra dipendenza. Ci illudiamo di essere invincibili e di conseguenza non sentiamo il bisogno della misericordia di Dio, quindi nemmeno della salvezza. Se non ci sentiamo peccatori, Cristo non è morto “per noi”. Ma Dio ci mostra il suo grande amore proprio nel peccato, il sacrificio di Gesù sulla croce è per redimere i peccati dell’uomo, è morto per ognuno di noi. Sentirci peccatori è la molla per spingerci a perdonare gli altri. Il vero perdono non nasconde la verità. Il vero perdono riconosce che è stato davvero commesso un errore, ma afferma che la persona che l’ha commesso merita comunque di essere amata e rispettata.
Il perdono non è debolezza
Il perdono non è debolezza, perché richiede che l’errore commesso sia riparato o almeno non ripetuto. L’altra faccia del vero perdono è la volontà concreta di ricostruire o ricominciare. Solo così il perdono si trasforma nel primo passo per diventare “per dono”. Il perdono profondo e vero si pone in un altro orizzonte di senso, che è quello del “dono”: perdonare è “donarsi”, è offrire se stessi come riscatto, è farsi dono, nonostante sia l’altro che mi deve qualcosa. Il perdono è ricambiare l’altro non con il male che mi ha fatto, ma con il bene che gli “dono”. Questa esperienza esige una grande libertà interiore in colui che deve perdonare.
La misura dell’amore che diamo
Il Signore ci promette che a chi dona verrà dato il centuplo già quaggiù sulla terra, perché Dio dona ben al di là dei nostri meriti, ma sarà ancora più generoso con quanti qui in terra saranno stati generosi nel perdonare e nel diventare dono per gli altri. Ci indica che saremo giudicati con la misura dell’amore che diamo, così il perdono diventa il dono più grande che possiamo fare alla nostra vita.