Con la teologia sottesa all’actus contritionis Marco d’Aviano reagisce efficacemente — beninteso a livello teologico — contro la dottrina giansenista della corruzione totale della natura umana provocata dal peccato originale, che per la quasi totalità della creature non elette risulterebbe addirittura insuperabile. Esse, in realtà, non potrebbero che peccare. Secondo i giansenisti perfino tutte le virtù umane, come quelle — per esempio — praticate dai pagani, sono anch’esse peccaminose perché fondamento della giustificazione è soltanto la fede concessa da Dio gratuitamente e indipendentemente da qualsiasi merito, attraverso la grazia «efficace» di cui, però, beneficiano un numero di pochi eletti.
Solamente l’actus contritionis rende l’uomo irresistibile a Dio
Nell’atto di dolore e nelle relative norme per emetterlo, P. Marco stimola, di contrappunto, l’anima della creatura alla contrizione e al dolore perfetto, una volta che essa è posta «di fronte alle piaghe aperte di Cristo». Cosa significa tutto ciò? Dal punto di vista dell’antropologia teologica significa attribuire un consistente bacino di possibilità emendatrici alla natura umana quando essa agisce nella libertà incussale dal Vangelo. Dove si attua, infatti, la storia della salvezza a livello personale se non nell’esercizio evangelico della libertà nel momento in cui si risponde alla chiamata all’amore oblativo? Soltanto dove si opera nella libertà vi è salvezza.
Si scorge qui, all’orizzonte, il primo originalissimo elemento di attualità di Padre Marco d’Aviano, al quale ben si adatta la constatazione di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (date) il quale, a proposito della confessione, asseriva che se anche si trova sempre qualche penitente che ritorna sui suoi passi per dire di aver dimenticato qualche peccato, tuttavia non si trova mai una persona che ritorni e dica di non essere riuscita a raggiungere il grado del dolore perfetto. La novità del predicatore Cappuccino dell’atto di dolore perfetto, insomma, è l’incredibile tentativo di mediazione che egli seppe attuare tra antropologia e teologia: l’uomo umiliato e sinceramente contrito (il Signore ascolta il grido del povero e non disprezza la sua supplica) diventa un’entità vivente irresistibile agli occhi di Dio! E la contrapposizione al giansenismo, sul versante dogmatico, divenne per la teologia proposta dall’Avianese assolutamente fatale.
Se questo primo assunto implica necessariamente una serie di positive conseguenze teologiche anche sull’attuazione celebrativa, per esempio, del sacramento della riconciliazione nell’assoluzione individuale, si deve pure affermare che P. Marco, sotto il profilo strettamente pastorale, anticipa la preoccupazione del summenzionato moralista del Settecento, Davvero P. Marco fu l’apostolo fervoroso della pia pratica dell’«esercizio dell’atto eroico di contrizione»[1], che rimette l’uomo in stato di grazia e lo rende degno di chiedere qualsiasi favore alle tenerezza di Dio, toccato nelle «viscere della sua misericordia»[2]. E, nella situazione di creatura umiliata e riconciliata nell’atto eroico d’amore, l’uomo diventa irresistibile nel chiedere grazie alla bontà divina.
La perfezione dell’atto di contrizione è il suo essere-dialogico non rivolto a un uomo ma a Dio
Sì è già osservato come la pratica adottata dal Servo di Dio di chiudere ogni sua predica con l’atto di dolore, servendosi della speciale formula redatta da lui, spieghi la rapida diffusione di quest’ultima. E, infatti, si divulgò dappertutto, moltiplicandosi in copie stampate in latino e nelle principali lingue europee[3]: italiano, francese, fiammingo, spagnolo, tedesco. Per la nostra indagine, non è per nulla da escludere che siano anche state riprodotte e stampate formule non controllate dall’autore, né dalle autorità ecclesiastiche competenti, in modo da non riprodurre esattamente le parole e la mens del Servo di Dio.
Questo fenomeno è facilmente riscontrabile in una famosa lettera scritta da Parigi il 25 Agosto 1681 alla sorella di Blaise Pascal (1623-1662), madame Périer, dal dottor Vallant, dove vengono mossi a P. Marco dei rilievi teologici che, nel testo originale in latino dell’atto di dolore, non si riscontrano affatto:
Si trova anche che vi è qualcosa di assai irregolare nelle sue benedizioni che egli [il P. Marco] impartisce ovunque pubblicamente, senza mandato e senza permesso dei vescovi; e vi è qualcosa nella sua preghiera e nel suo atto di contrizione che egli ha redatto, e che viene fatto stampare per coloro che vogliono ricevere questa benedizione, di cui non tutti sono contenti. In un punto egli afferma che Dio ha così in abominio il peccato, a tal punto che uno soltanto gli arreca così tanto dolore da non poter gioire di tutte le altre buone azioni dei Patriarchi e dei Santi. Parecchie religiose dell’Abbazia «aux Bois» affermano che esse non comprendono affatto il suo atto di contrizione, che egli indaga troppo nel mistero, che sarebbe stato meglio dire che questo non è altro se non un dolore del cuore attraverso un movimento d’amore di Dio, il quale non può venire se non dal cielo[4].
La lettera del dottor Vallant, tuttavia, denuncia in maniera eclatante la dichiarata mentalità degli ambienti giansenisti in essa accolta e ratifica, pertanto, la tesi che l’atto di dolore scritto da P. Marco sia teologicamente inscindibile dal Sitz im Leben giansenista a esso coevo. Ma questo, s’è detto, vale anche da un punto di vista strettamente cronologico perché resta storicamente dimostrato come fossero proprio i vescovi e richiedere pressantemente alla Sede Apostolica la presenza del Servo di Dio e, quindi, della sua attività di «concionator» e di pacificatore delle coscienze[5] contro il giansenismo.
L’atto di dolore perfetto in quanto microstoria della salvezza personale
In questa lettera compare, in ogni caso, un elemento che non è possibile tralasciare con troppa facilità, per quel tanto che esso illumina, per contrapposizione, l’apparato dogmatico presente nell’atto di dolore di P. Marco, facendone altresì emergere l’incredibile dimensione d’attualità. Il principio ermeneutico corretto è, infatti, il seguente: l’atto di dolore è essenzialmente una preghiera, rivolta dall’uomo creato al suo Dio creatore. Usando nel testo la prima persona al singolare, risulta essere l’uomo che in esso parla, leggendo la sua storia e presentandola — così come essa realmente è — alla grazia sanante di Dio. È giunto ora il momento, dunque, di prendere direttamente in esame il testo nella sua traduzione italiana:
Io creatura debole e indegna prostrata ai vostri sacrosanti piedi, confesso con intenso dolore e con l’anima ripiena di confusione, le mie innumerevoli negligenze, i peccati e i delitti che ho commessi sin dai primi anni di mia vita. Io vi ho offeso, i mio Dio, io vi ho offeso! Io me ne pento dal profondo del mio cuore. Vorrei soffrire tutti mali immaginabili, anche la morte, se ciò fosse sufficiente a cancellare le mie offese contro di voi, mio sommo Bene. Io ho peccato, o mio Dio! Per cancellare il ricordo del mio misfatto, non esiterei un istante a sottomettermi ai più crudeli tormenti. Se il sangue delle mie vene fosse inesauribile come le acque dell’oceano, sarei pronto a versarlo sino all’ultima goccia per vostro amore, non una volta soltanto, ma due, tre e più ancora, senza cessare giammai. Ho peccato, o Signore, ho peccato! Io me ne pendo dal profondo del cuore e fo il fermo proposito di morire piùtosto (sic!) che commettere un peccato mortale. Se la vostra suprema sapienza prevedesse che un giorno o l’altro, per incostanza o fellonia, vi dovessi gravemente offendere, la mia umile preghiera e il mio ardente desiderio è di morire oggi stesso, munito della vostra grazia. Piacesse al Cielo che la mia contrizione eguagliasse la somma di tutti i dolori e rendesse immutabile il mio proposito di non peccare mai più. Poiché io vi devo, Dio infinitamente buono, una servitù piena e intera; non tanto per tema dell’inferno di cui pei miei peccati ho meritate mille volte le pene, e per speranza della eterna beatitudine della quale mi sono reso indegno tante volte, quanto per dolore di avere offeso Voi, Sommo Bene, Maestà divina, che noi dobbiamo lodare, benedire e ringraziare senza fine! Così sia!
Il fatto che nel testo dell’atto di dolore non si parli una volta soltanto dell’abominio — pur reale — con il quale Dio aborrisce il peccato della creatura (Gn) da lui plasmata, ma sia, invece, una sublime confessione di umiltà della stessa, non implica meramente l’infondatezza delle accuse scritte per conoscenza alla sorella del filosofo francese filo-giansenista, diventato celebre per il suo esprit de finesse e per quello de géométrie, bensì pone in luce il cardine della dottrina di Gansenio. Nell’Augustinus[6] l’ecclesiastico e teologo olandese, in vivace polemica con Luis de Molina (date), sottolineava, infatti, la corruzione fondamentale dell’uomo, provocata dal peccato di Adamo e trasmessa a tutte le generazioni. Giansenio, così, poteva asserire la tesi dottrinale delle «due dilettazioni» derivata da Baio (date e nome), ossia quella della concupiscenza generale e invincibile appannaggio della natura umana corrotta, e quella dell’amore legato alla grazia ante previsa merita, che Dio concerebbe soltanto e inspiegabilmente a chi egli ha predestinato. Ecco perché, nell’ottica giansenista, l’attività principale di Dio — se così si può dire — è quella essenzialmente di aborrire il peccato della sua creatura.
Qui ci si trova esattamente davanti allo spartiacque dogmatico tra la teologia dell’atto di dolore di P. Marco e l’aporia giansenista che, nella sua componente francese, sviluppò — sulla scorta della dottrina della grazia — particolarmente gli aspetti morali e pratici, in direzione ascetica e nella disciplina sacramentale. P. Marco, infatti, non traccia innanzitutto alcuna distinzione teologica tra i credenti in Gesù Cristo e nemmeno — conviene ricordarlo — tra gli uomini in generale. Nell’atto di dolore «perfetto» si declina allora un processo di rivelazione sincera dell’uomo a Dio, secondo quanto segue.
Triplice declinazione dell’atto di dolore perfetto
In un primo momento, ognuno presenta se stesso al Dio creatore, confessando con fiducia (confiteor), ma anche con intensa contrizione (summo dolore) e con l’anima ricolma di confusione (confusione animi) gli inizi fragili (negligentias) di ogni storia umana (a primordiis vitae meae). Il riconoscimento aderente alla propria veritiera realtà provoca, così, nell’uomo un pentimento (doleo) salutare che lo penetra fin nella più recondita individuale intimità (medullitus).
In un secondo momento avviene il riconoscimento del peccato come male compiuto verso un Tu personale che è Dio stesso: «Peccavi Tibi, Deus», esclama il trentenne Padre Marco. È estremamente importante, da una prospettiva teologica, la spiegazione che viene data del peccato dal momento che per P. Marco si tratta di un «male factum», ossia della posizione in essere di una realtà negativa nella creazione che prima non sussisteva affatto, a tal punto che nell’atto di dolore essa viene pensata — e retroattivamente desiderata — al contrario in modo tale da poterla «in non factum redigere», dove l’«in» precisa chiaramente il movimento all’indietro di conversione, germinalmente presente nell’atto di riconoscimento del peccato dinanzi a Dio Padre (mi alzerò e tornerò)[7].
È il terzo, momento, comunque, quello che — se vediamo giusto — fissa il punto di svolta dell’atto di dolore perfetto correttamente interpretabile come actus contritionis poiché il Servo di Dio, sùbito dopo aver accennato alla «grazia tua», mette in bocca a decine e decine di migliaia di fedeli queste espressioni approvate dall’autorità ecclesiale: «Utinam haec contritionis meae compunctio omnium dolorum apicem attingeret, et hoc propositum immutabile redderet»[8]. Non risulta difficile scorgere qui, in sottofondo, non solamente l’autentico e completo insegnamento magisteriale tridentino circa il sacramento della riconciliazione assieme all’infondatezza delle critiche presenti nella lettera del dottor Vallant, ma anche e soprattutto il rimando alla concezione ottimistica della natura umana, la quale può accedere al soprannaturale con l’ausilio della grazia se essa prova il dolore che spinge al pentimento. Teologicamente, ma adesso anche da un punto di vista antropologico, è consistente la presa di distanza dal giansenismo, mentre risulta particolarmente effettuale ed attuale il fenomeno per il quale il cristiano — ma anche qualsiasi credente — si pente soltanto quando prova vero dolore; tuttavia egli sa di aver compiuto del male quando ama Colui in cui crede, come amasse una persona viva e vera che ha offeso.
[1] Atto di dolore
[2] atto di dolore
[3] Mettere la formula e dopo quello che è scritto in positio p. 65.
[4] «Francese» : Hilaire da Barenton O. F. M. Cap., «Un thaumaturge au XVIIe siècle. Le Père Marc d’Aviano», Études Franciscaines 10 (1903), 406-409, dove si pubblica questa lettera presa dal Codice 2271 della Biblioteca Comunale di Troyes. Si veda anche Positio Doc. VI, B, 1, 64-65
[5] vedi da qualche parte: Collectanea 1940, p. 34.39
[6] Iniziata nel 1627 e pubblicata postuma nel 1641.
[7] Non è corretta, pertanto, la traduzione dal francese e l’omissione
[8] Positio