Continua la pubblicazione, a puntate, del volume “ Sono giovani i santi”, di fra’ Gianluigi Pasquale edito da “La Fontana di Siloe” di Torino. Oggi il ritratto di Madre Teresa di Calcutta
«Non importa quanto si dà, ma quanto amore si mette nel dare».
(Madre Teresa di Calcutta)
A settembre verrà celebrato il settimo anniversario della canonizzazione di Santa Madre Teresa di Calcutta (1910-2010), la «piccola matita nelle mani di Dio». Aveva solo trent’otto anni quella giovane ragazza albanese Agnes Gonxha Bojaxhiu, Madre Teresa di Calcutta, quando sentì – se si leggono con attenzione i suoi “appunti” – «una chiamata nella chiamata» a vivere da sola alla periferia della più povera e polverosa metropoli indiana: Calcutta, la città dalla polvere rossa. Era, allora, il 1948. Ossia l’anno in cui il mondo intero aveva capito, a proprie spese, quanto assurdi fossero stati i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Ma era anche il momento in cui più di qualcuno si sentì interpellato alla lunga e paziente opera di ricostruzione di un’umanità smarrita nel proprio tessuto sociale e morale, oramai disfatto. Tra questi, a Calcutta appunto, qualcosa nel cuore di quella giovane albanese, nata a Skopie il 26 Agosto 1910, dai lineamenti e di origine nobile, stava prendendo la forma di un desiderio diventato irresistibile. Devono certamente avere visto qualcosa di umanamente indescrivibile quegli occhi lucidi e penetranti della giovane suora “jugoslava”, che, invece, ci siamo sempre abituati a vedere con le mani giunte – un po’ rigate – e con il Rosario in mano, come abbiamo osservato varie volte in televisione oppure in qualche album fotografico. O ancora, in altre rappresentazioni, vestita dal caratteristico sari bianco a strisce azzurre, stringere tra le braccia un bimbo dalla pelle scura e con la pancia rigonfia dai vermi per la privazione endemica di cibo, mentre il pargoletto aggrappandosi con la manina al velo di Madre Teresa e al crocifisso posto sul sari, la stringeva dolcemente, quasi a ricercarne sicurezza e maternità. Ma cosa era successo nella vita di Madre Teresa per portarla così in alto?
I quattro foglietti ingialliti
Il fatto è da ricercare in una data di quelle fatidiche: il 14 Agosto 1928, quando non vi era ancora né ferragosto, né la solennità della “Assunta” – almeno ufficialmente: comunque una data del nostro calendario. La futura Madre Teresa era in visita al santuario mariano di Letnica, al confine tra Kosovo e Macedonia: lì e in quel giorno Agnes Gonxha sentì una chiamata interiore e un forte desiderio di farsi suora. La testimonianza è raccolta in quattro foglietti ingialliti scritti in Croato, datati Dicembre 1928 e pubblicati sulla rivista Katoliĉke Misije (Missioni cattoliche): sentì, dunque, quella chiamata a 18 anni, durante il sesto anno del ginnasio. Come san Pietro con le reti, così anche lei ha buttato i suoi libri in nome di Dio, lei che, ammirata perché era sempre stata la prima della classe, abbandonava la carriera accademica per seguire la propria vocazione, lasciando tra le compagne e i compagni, dagli occhi lucidi per la perdita che si profilava all’orizzonte, un vuoto incolmabile. Consigliata dai gesuiti croati che reggevano la sua parrocchia, si rivolse alla suore di Loreto a Zagabria.
La partenza per l’India
Fu accolta per il postulandato e inviata in Irlanda presso la Casa madre della congregazione a imparare l’inglese. L’anno seguente partì per l’India. Dopo il noviziato fu infermiera. Quindi, terminati gli impegni universitari, per una decina d’anni insegnò nella scuola di St. Mary a Calcutta. Vedendo attorno a sé tanta sofferenza, entra in crisi spirituale e compie una inversione di rotta. La sua via di Damasco è un viaggio in treno verso la cittadina di Darjeeling: qui matura la sua opzione totale per i poveri, gli emarginati, coloro che sono privati degli affetti più elementari. Scrive al suo padre spirituale: «Ho deciso di abbandonare il convento per poter più liberamente servire i poveri tra i poveri». Lascia l’abito delle suore di Loreto e veste, appunto, il sari bianco orlato di azzurro, indossa i sandali dei poveri senza calze e fa della strada il suo convento, consolando, soccorrendo, accompagnando i moribondi a trovare un po’ di luce.
Un abito semplice
Infatti, nella sua umiltà Madre Teresa scelse per la nuova congregazione un abito semplice, indossato quotidianamente da milioni di donne indiane: il sari, nella versione più economica. Di tessuto bianco, i bordi azzurri simboleggiano i voti religiosi: le fasce più piccole povertà e obbedienza, la più grande la castità e il servizio ai poveri. Un crocifisso sulla spalla – quello con il quale giocava il pargoletto di cui abbiamo parlato – ricorda alle suore che Cristo è il loro unico padrone. Le quattro spille che reggono il sari richiamano ancora i quattro voti. L’azzurro è il colore mariano per eccellenza, il colore della Madre di Dio, secondo Madre Teresa la “prima missionaria”.
Qualcosa di bello per Dio
L’inconscio collettivo in cui ognuno di noi vive e opera – il cosiddetto “scenario” mondiale – si è colorato in questi primi anni del XXI secolo di tante amabili figure di “santi e sante”, icone del volto misericordioso di Dio, tra cui: Padre Pio da Pietrelcina (1887-1968), con la fiamma della sua altissima esperienza mistica, Santa Maria Faustina Kowalska(1905-1939), esempio di perfezione cristiana basata sulla fiducia in Dio e sull’atteggiamento misericordioso verso il prossimo, e Madre Teresa di Calcutta, con l’amore, nudo e assoluto, verso gli ultimi. Figure il cui solo sguardo infonde nel nostro cuore serenità, pace, sicurezza, desiderio di compiere anche noi almeno un frammento di bene tra quel tanto che esse hanno depositato nel calendario della storia universale. Interessante è il fatto che a esibire questi sentimenti sono esattamente i giovani del XXI secolo, magari proprio quelli più lontani dall’ufficialità della Chiesa. Chi di noi, per esempio, potrà mai dimenticare quella foto del 12 Febbraio 1986 che ritrae a Calcutta sulla “papamobile” San Giovanni Paolo II (1920-2005), il quale ricopre, con la sua mano destra, la piccola spalla di Madre Teresa, abbracciandola, e quest’ultima che stringe la mano sinistra del Papa, quasi a chiedergli umilmente aiuto e protezione? L’uno alto di statura, l’altra piccina, tuttavia entrambi accomunati da un sorriso smagliante e rasserenante che ha fatto il giro del mondo. Forse, proprio in quel 12 Febbraio il Papa dei giovani maturò la convinzione di stringere la manina di una che, un giorno, sarebbe stata Santa, cosa che, in realtà, avvenne il 4 Settembre del 2016, tredici anni dopo la beatificazione del 19 Ottobre 2003 Infatti, e per la seconda volta nella storia, Papa Wojtyla fece aprire, con una deroga speciale, il processo di beatificazione a due soli anni dalla morte avvenuta il 5 Settembre 1997. La prima eccezione avvenne soltanto con San Francesco (1182-1226), canonizzato nemmeno due anni dopo la sua morte, nel 1228.
Il servizio della BBC
A questo punto, però, bisogna inserire un tassello biografico che, probabilmente, è sconosciuto ai più, credenti e non credenti, e che spiega il “fenomeno” Madre Teresa, prima ancora di rubricarlo in protocolli ecclesiali di genere unico. La “fama” dell’amabile suora di Calcutta non prese piede per la semplice facoltà con cui il beato Papa Paolo VI (1897-1978) concesse alle sue suore, le Missionarie della Carità, nel 1965 di espandersi anche fuori dall’India, bensì quattro anni dopo nel 1969, grazie a un fortunato servizio televisivo della BBC intitolato Qualcosa di bello per Dio. Realizzato dal noto giornalista Malcom Muggeridge (1903-1990), il servizio documentò il lavoro delle suore fra i poveri di Calcutta. Sennonché, durante le riprese alla «casa dei moribondi», a causa delle scarse condizioni di luce, si ritenne che la pellicola si potesse essere rovinata. Ciò nonostante, lo spezzone, quando fu inserito nel montaggio, apparve ben illuminato. I tecnici sostennero che fu merito del nuovo tipo di pellicola utilizzato, ma Muggeridge si era convinto che fosse un miracolo: pensò che la luce divina di Madre Teresa avesse illuminato il video, e si convertì al cattolicesimo. In realtà, anche un libro può portare alla conversione; anche le immagini di un film possono, certamente, innalzare il nostro spirito alle cose di lassù (Col 3,1). E anche le pagine a seguire possono, forse, fare altrettanto.
La casa dei puri di cuore
Riflesso su Kalighat, la citata «casa dei moribondi» di Calcutta, si intravede ancora oggi il sorriso di Madre Teresa: possiamo ancora immaginarla mettere le lenzuola e le coperte nei lavatoi e pestarli nell’acqua corrente, servire il pranzo, pulire i piatti e i bicchieri, parlare con i malati, pulirli dagli escrementi, stare loro vicino durante le medicazioni. Ma vi era e c’è anche Nirmal Hriday, la «casa dei puri di cuore», che ospita i più poveri. Madre Teresa volle che gli agonizzanti potessero non morire da soli, come cani per strada, ma circondati dall’affetto delle suore e dei volontari. Li accoglieva tra i rifiuti e li portava a Nirmal Hriday, la sua casa prediletta. «Ho vissuto come un animale per la strada, ma sto per morire come un angelo, amato e curato», le disse un uomo, ricoperto e mangiato dai vermi, prima di spirare. L’abisso che separa la suora albanese dall’ospite, magrissimo, seduto nel lettino sotto un quadro della Divina Misericordia, si annulla: quest’ultimo gli tiene la mano e in questo momento è l’unica cosa che chiede. La nascita di Nirmal Hriday fu ed è un miracolo: vicino a un tempio indù, dedicato alla sanguinaria Kali, la dea nera dal terribile aspetto. A pochi metri, i fedeli si affollano per entrare e adorarla. Offrono fiori, incenso e sacrifici di animali. Nel retro, nella zona sacra, le capre sono lavate per la purificazione e sgozzate. Nel 1952, quattro anni appena dopo aver mosso i suoi “primi passi” a Calcutta, Madre Teresa iniziò a ospitare uomini e donne abbandonati, divorati dalle piaghe, i quali – parafrasando una celebre poesia di Alda Merini (1931-2009) – avevano già «bagnato di lacrime proprie il legno della croce, per gli spasimi umani», quali figli del Figlio del falegname.
La vicina comunità indù – Kaligath è un quartiere a maggioranza induista dove bancarelle e venditori asfissiano i turisti con i souvenirs sacri – non gradì. La suora albanese fu accusata di fare proselitismo. Un giorno una folla inferocita “bussò” alle porte della casa. Le suore ebbero paura. Madre Teresa invitò uno dei capi dei manifestanti a entrare: l’uomo, quando vide in che modo i malati erano curati e assistiti, se ne andò. Da allora la convivenza è tranquilla. Gli indù continuano a pregare la loro dea, le suore e i volontari a curare i moribondi: piccola differenza, però, che indica qualcosa sulla veridicità del cristianesimo rispetto alle altre religioni. Dall’alto un crocifisso sopra una cupola guarda la piazza affollata di ambulanti che vendono e di fedeli che comprano. Anche oggi in quella Casa madre c’è sempre un viavai di gente. Decine di visitatori, tutti i giorni, vanno al pianterreno dove c’è la tomba della fondatrice delle Missionarie della Carità. Alle comitive di indù, arrivati a Calcutta per i tour religiosi, non dispiace visitarla. La tomba è un semplice parallelepipedo di marmo ricoperto di petali arancioni. I cattolici pregano, gli indù scattano foto e vanno via, ma tutti si fermano qualche minuto.
Abbiamo continuato a volerci bene
L’arancione in India è il colore della divinità e, pertanto, della vita eterna[8]. In realtà, Madre Teresa ebbe un rapporto “francescano” con “sorella” morte, credendo fermamente alla persistenza del nostro essere dopo la morte, grazie alla nostra risurrezione. Di recente è stata pubblicata la trascrizione di una lunga risposta che la Beata di Calcutta diede – lei che dava risposte brevi e veloci, per non dire concise – a questa precisa domanda: «ha paura di morire?». Dopo alcuni attimi di silenzio, disse: «Io sarei contenta […] se potessi dire che questa sera muoio. Morendo andrei a casa anch’io. Andrei in paradiso. Andrei a trovare Gesù. Io ho consacrato la mia vita a Gesù. Diventando suora, sono diventata la sposa di Gesù. […] Porto l’anello al dito come le donne sposate. E io sono sposata a Gesù. Tutto quello che faccio qui, su questa terra, lo faccio per amore suo. Quindi, morendo, tornerei a casa. Dal mio sposo. Inoltre, lassù, in paradiso, troverei anche tutti i miei cari. Migliaia di persone sono morte tra le mie braccia. Sono ormai più di quarant’anni che dedico la mia vita agli ammalati e ai moribondi. Io e le mie suore abbiamo raccolto per le strade, soprattutto in India, migliaia e migliaia di persone in fin di vita. Le abbiamo portate nelle nostre case e le abbiamo aiutate a morire serene. Molte di quelle persone sono spirate tra le mie braccia, mentre io sorridevo loro e accarezzavo i loro volti tremanti. Ebbene, quando muoio, io vado a trovare tutte queste persone. Sono là che mi aspettano. Ci siamo voluti bene in quegli attimi difficili. Abbiamo continuato a volerci bene nel ricordo. Chissà quale festa mi faranno vedendomi. Come posso aver paura della morte? Io la desidero, l’aspetto perché finalmente mi permette di tornare a casa».
Calcutta, India
Quelle persone in fin di vita furono raccolte quasi tutte a Calcutta. Anche oggi lì l’aria è, purtroppo, ancora irrespirabile. La messa mattutina, nella cappella della Casa madre, è scandita dai colpi di tosse dei volontari, da poco arrivati, non ancora abituati allo smog, così denso al punto che non potranno mai abituarsi. Il luogo dedicato al silenzio e all’adorazione, per ironia della sorte, è quanto di più caotico vi possa essere: le finestre danno su una via che, negli anni, è diventata una specie di autostrada. Le suore pregano concentrate come se fossero avvolte dal silenzio di un monastero benedettino e anche questa è una testimonianza. Una riproduzione di gesso ricorda il posto dove Madre Teresa si sedeva sempre per pregare, in fondo, vicino all’ingresso. Lì, in quello scranno e in quella Calcutta, la giovane albanese trascrisse sul libro della propria vita (Ap 20,15) quelle poche righe concepite in croato nei quattro foglietti ingialliti, di cui abbiamo detto. Se in quelli c’erano già i tratti essenziali di una personalità che ha segnato indelebilmente il secolo scorso, l’esistenza di Madre Teresa non cessa di pulsare nel mondo a oltre cento anni dalla sua nascita: un secolo della «matita nelle mani di Dio», che oggi noi possiamo leggere, ammirare, osservare, forse pure tentare di imitare. Madre Teresa di Calcutta è stata la donna e la santa del XX secolo per antonomasia, quella “matita” che non andò con la corrente, ma controcorrente, che non corse dietro alle cose, lei che si era privata di tutto, che non ricercò sicurezza, lei che si era esposta a ogni rischio. Parafrasando ancora una volta, e per concludere, l’indimenticabile altra matita di Alda Merini, penso che la poetessa di Milano avrebbe descritto così Madre Teresa: «un autentico apocrifo di Vangelo, in cui la parola “amore” fa rima con “libertà”».