Continua la pubblicazione, a puntate, del volume “ Sono giovani i santi”, di fra’ Gianluigi Pasquale, edito da “La Fontana di Siloe” di Torino. Oggi il ritratto di Joseph Freinademetz.
Nessun posto è così sperduto da sfuggire allo sguardo di Dio
Nella culla del turismo in Alta Valbadia, che è Corvara, dall’alto delle Dolomiti del Trentino Alto Adige, si scorge anche oggi Oies, un minuscolo gruppuscolo di abitazioni dalla tipica architettura tirolese, in provincia di Bolzano. All’epoca in cui nacque Giuseppe Freinademetz il 15 Aprile 1852 vi sorgevano solamente cinque case. Un luogo, dunque, isolato, dove si parlava (e ancora si parla) la lingua «ladina». Ujöp fu, infatti, il nome con cui i genitori Johann-Matthias e Anna-Maria Algrang portarono al battesimo il bambino, appunto, Giuseppe, lo stesso giorno in cui nacque. Lo scorrere delle giornate e della vita veniva scandito dal duro lavoro e la fatica era sostenuta dall’affidamento al Signore. Tuttavia, non ci sono luoghi nascosti allo sguardo del Signore. Nessun posto e troppo sperduto perché una creatura non possa essere scelta da Dio a una missione dai confini ben più ampi rispetto alle cime delle Dolomiti. Ricevuto il sacramento della Confermazione soltanto a due anni – allora si usava così – tra il 1858 e il 1862 frequentò la scuola elementare ladina a Badia, ottenendo buoni risultati. Giuseppe non passa inosservato. Qualcuno si accorge della sua vivace intelligenza e della sua sensibilità. Il tessitore Franz Thaler decide di offrirgli la possibilità di studiare a Bressanone, frequentando il ginnasio dei Padri Agostiniani a Novacella, pur dimorando nel «Cassianeum» ossia nel Seminario Minore Diocesano di Bressanone. Ed è proprio in questo contesto che emerge l’attitudine del giovane seminarista all’apprendimento delle lingue.
La vita
Ordinato sacerdote nella Diocesi di Bressanone il 25 Luglio 1875, soltanto un mese dopo celebrò la sua prima Messa, e fu assegnato come cooperatore proprio alla comunità di San Martino in Badia, tornando in un certo senso, «a casa». Questa prima esperienza pastorale, però, durò pochissimo. Nonostante la stima e l’affetto della gente, il giovane Joseph, allora solo venticinquenne, non riuscì a sedare la sua «inquietudine» per la missione. Leggendo il numero di Gennaio 1878 del bollettino diocesano di Bressanone, a Giuseppe non sfugge una breve notizia riguardante un nuovo istituto missionario. A Steyl, un paesino sito in Olanda vicino al confine con la Germania, tre anni prima, l’8 settembre 1875, un sacerdote tedesco, Arnoldo Janssen (1837-1909), aveva fondato la «Società del Verbo Divino». Lo scopo era «la diffusione della missione cattolica in quei paesi che maggiormente ne avevano bisogno», ma l’annuncio diceva anche «si accettano sacerdoti».
La persona giusta
Freinademetz, che non aspettava altro, si affrettò a mandare una breve lettera a Janssen dando la sua disponibilità. Probabilmente Janssen capì già da quella lettera che chi la scriveva era la persona «giusta» e dopo due settimane mandò la sua risposta positiva. Come saremmo venuti a sapere soltanto nel XXI secolo, per una luminosa coincidenza della Divina Provvidenza, i due si sarebbero ritrovati di nuovo assieme, dichiarati santi nello stesso giorno a Roma, il 5 Ottobre 2003, da San Giovanni Paolo II (1920-2005).
La «ciocca di capelli» del futuro missionario: l’unica reliquia
La cosa fu accolta con entusiasmo da Giuseppe, meno dalla cuoca di San Martino, che si era molto affezionata al giovane prete. Riuscì a tagliargli una ciocca di capelli, «così almeno resterà qualche cosa di lui, nel caso che i cattivi pagani dovessero ammazzarlo». In un certo senso la donna fu profetica, perché quel ciuffetto è l’unica reliquia rimasta di Freinademetz ed è oggi conservata nella casa-santuario del Santo, visitabile in Valbadia. Non furono frapposti ostacoli dal principe-vescovo e negli atti del 4 Luglio 1878 dell’ordinariato vescovile si legge di don Freinademetz: «in perpetuum dimissus» (dimesso dalla Diocesi) per la missione. Ovviamente genitori e fratelli non erano contenti che il loro Ujöp andasse chissà dove in mezzo ai pagani. In luglio Arnoldo Janssen viene a Bressanone e il vescovo del luogo gli «consegna» Giuseppe: «Il vescovo di Bressanone dice di no, ma il vescovo cattolico dice “sì”: prenda mio figlio Freinademetz e ne faccia un valido missionario». Salutati i suoi, Giuseppe parte per l’Olanda. Annota in una delle sue molte lettere: «Qui a Steyl la gente chiama montagna ogni piccola collina; un giorno senza nebbia è una rarità; la gente sparge il letame anche a Capodanno e all’Epifania». Freinademetz era molto legato alla sua famiglia e amava profondamente la sua terra: cosa l’avrà spinto a lasciare tutto questo?
L’annuncio del Vangelo nella lontana Cina
Il 2 Marzo 1879 dopo aver ricevuto il congedo da Badia e da Steyl, Joseph ricevette la croce missionaria a Roma da Papa Leone XIII (1810-1903) e, insieme a padre Giovanni Battista Anzer, partì alla volta della Cina. Dopo un viaggio di ben cinque settimane, arrivarono ad Hong Kong il 20 Aprile 1879, dove prepararono la loro stazione missionaria per i successivi due anni. La missione riguardava la zona di Shantung nel Sud, una provincia cinese, con oltre 12 milioni di abitanti ed appena un centinaio di fedeli battezzati. Qui giunsero il 15 luglio 1881 e nel febbraio 1882 ottenne il passaporto missionario francese.
Gli anni duri
Furono anni duri, segnati da viaggi lunghi e difficili, assalti di briganti e un lavoro arduo per formare le prime comunità cristiane. Appena riusciva a costituire una comunità che potesse camminare da sola, arrivava l’ordine del vescovo di lasciare tutto e ricominciare in un altro luogo, esattamente a Puoli nel Shanlung meridionale. Anche lì, affrontò difficoltà di ogni tipo: la lingua, la differenza di cultura, la povertà e la scarsità di mezzi, la diffidenza dei cinesi verso il «diavolo straniero», l’incomprensione e la derisione per i suoi modi semplici e ingenui. Ma fu proprio durante la sua missione che Freinademetz maturò nel segreto del suo cuore il suo desiderio di farsi religioso per sempre emettendo i voti perpetui il 15 Agosto 1886, ed entrando definitivamente a far parte della «Società del Verbo Divino» (SVD).
Il libro di catechismo
Joseph iniziò a formare, innanzitutto, dei laici cinesi che potessero aiutarlo nel ruolo di catechisti. Per loro scrisse anche un libro di catechismo in cinese, senza non poco impegno. Successivamente si dedicò anche alla cura dei sacerdoti autoctoni e chiese per loro la parità con i sacerdoti occidentali. I «suoi» cinesi, non riuscendo a pronunciare il nome originale, lo chiamavano padre «Fu Shenfu», cioè «sacerdote, padre della fortuna». Occupò diversi incarichi di responsabilità: amministratore della missione, rettore del seminario, direttore spirituale del primo gruppo di sacerdoti cinesi, superiore provinciale. Diceva: «Io amo la Cina e i cinesi; voglio morire in mezzo a loro, e tra loro essere sepolto».
Una storia «per lettere» e la novità del metodo missionario
Un tratto peculiare che caratterizza la personalità del nostro missionario tirolese sta nella passione per la corrispondenza epistolare, dove si ravvisa il metodo missionario escogitato per avvicinare il popolo cinese all’annuncio del Vangelo. Da quest’ultima prospettiva le intuizioni di Joseph Frenamedetz presentano tratti di indubbia originalità. Come ha riconosciuto pure uno scrittore del calibro di don Divo Barsotti, teologo e mistico (1914-2006): «le Lettere di Freinademetz sono un documento di altissimo valore». Da queste si arguisce che l’impatto tra la cultura cinese e il cristianesimo non sembra facile: la prima considera il secondo una presenza ad esso estranea, per non dire straniera.
La lettera alla sorella e al fratello
Tuttavia tra i cristiani Cinesi vi è la convinzione della propria identità cristiana, come annota il nostro Joseph in una interessante lettera, del 22 Dicembre 1879, scritta alla sorella e al fratello, in cui si scorge pure un certo – quanto ovvio – «impaccio» stilistico: «La lingua è assai difficile e finché potrò predicar in cinese passerà ancora un bel pezzo di tempo, solamente per poter un po’ conversare in cinese arrivo adesso. Si trova qui un povero vecchio Cristiano come non si trova molti. Ogni giorno si alza alle 2 o 3 di mattina e fa orazione fin le 6 o le 7. Egli è cristiano da 8 anni. Ogni Missionario ha un servo, che gli fa il necessario». Joseph, inoltre, ci rivela qualcosa di ancora più interessante. Narra quanto sia difficile convertire chi pensa che si possa vivere di solo pane. Scrive un anno dopo: «le difficoltà nel convertir i Cinesi sono danzi grandissime. Prima di tutto i Cinesi non se ne curano molto di religione, contenti che abbiano da mangiare. Per secondo, noi Missionari siamo forestieri e tutto quello che non è cinese non vale niente affatto ed è peggiore del diavolo. Per quello ci chiamano diavoli stranieri . Un’altra grand difficoltà resta sempre la lingua. Ma alla fin dei conti l’obbligo del Missionario è quello di render testimonianza di Gesù Cristo dinnanzi ai pagani, di seminar la buona semenza, rimettendosi poi con tutta rassegnazione al Signore se la semenza porta frutto o no» (Lettera del 23 Luglio 1880).
Voglio morire in Cina
Nel 1898 il continuo lavoro e le molte privazioni presentarono il conto. Ammalato alla laringe e con un principio di tisi, dietro insistenza del vescovo e dei confratelli dovette trascorrere un periodo in Giappone nella speranza di recuperare la salute. Ritornò in Cina rimesso un po’ in forze, ma non guarito. Siamo nel 1900. Dopo vent’anni di duro lavoro in Cina, P. Janssen lo invitò ad andare a Steyl per la celebrazione del 25° della Congregazione. Freinademetz rifiutò l’invito. In quel tempo era in corso la ribellione dei «Boxer» (1899-1901). Le autorità tedesche ordinarono ai missionari di ritirarsi nel porto di Tsingtao, per poterli proteggere. Giuseppe, pur sapendo del pericolo al quale andava incontro, decise di rimanere nella stazione missionaria di Puoli. In questa circostanza inviò un gruppo di orfani della missione al porto di Tsingtao, essendo in quel momento un luogo relativamente sicuro. Così succedeva ogni volta che il vescovo doveva fare un viaggio in Europa: Freinademetz assumeva l’amministrazione della diocesi. Alla fine del 1907 scoppiò un’epidemia di tifo. Joseph, da buon pastore qual era, prestò la sua instancabile assistenza, fino a quando lui stesso si ammalò. Ritornò immediatamente a Taikia (attuale Dai Jia Zuang), sede della diocesi, dove morì il 28 Gennaio 1908, chiedendo di essere seppellito in terra cinese con i cinesi. Durante la «rivoluzione culturale» di Mao (1893-1976) la sua lapide venne rimossa e distrutta, ma ora è stata ricomposta e ricollocata al suo posto, dove è ancora oggetto di grande devozione. Tutta la sua vita fu espressione di quello che fu la sua primigenia intuizione: «La lingua che tutti comprendono è l’amore».