Pubblichiamo un articolo di fra’ Gianluigi Pasquale del 2009.
Milano: 7 Agosto 2009. Da Venezia giungo nella capitale economica della Penisola sul far del mattino. Si presenta calda e afosa. Ma non deserta, come me la sarei aspettata. Tutt’altro. Penso che molti, come me, avevano deciso di non farsi nemmeno un giorno di vacanza in quella che si percepiva essere la prima estate della “crisi”. E anche il Professore era al lavoro nella sua casa, giusto appena fuori quella scialba stazione ferroviaria che è Milano Lambrate. L’intervista era pronta da mesi. Ed io ero, soprattutto, felice di poter intervistare Umberto Galimberti perché sapevo che, senza passare per l’“anticamera”, avrei nuovamente incontrato il Professore e un amico. Il quale, saputo a suo tempo che gli avrei posto domande su “il prete”, mi rispose subito: «sì certo». Appunto, come farebbe un amico, come fa il Professore. Questi – e altri densissimi, ma altrettanto troppo biografici – erano i miei pensieri mentre in via Giovanni Pacini cadevano già le foglie, ancorché non d’autunno. Stigma di un mondo, il nostro, che soffre anche in natura. Proprio come per i pochi alberi che si tenta, invano, di continuare a piantare in Venezia.
Tuttavia, un tantino di biografia deve pur sporgere. Altrimenti non si capisce perché Umberto Galimberti e perché “il prete”. Quando don Armando Matteo, che per la sbobinatura di quanto si leggerà non si è risparmiato nel lavoro “estivo” mi propose questo azzardo, accettai immediatamente perché sapevo già che avrei trovato l’interlocutore consenziente. Bisogna, dunque, spiegare il perché. Senza troppo (dover) dilungarmi. Le radici dell’amicizia, nota tra i teologi italiani, con il Prof. Galimberti risale al Natale del 2001 e a una sciarpa rossa, colore tutt’altro che allogeno all’atmosfera natalizia. Perché in quell’occasione natalizia intuii che cosa significhi essere “Professore”, esercitare una “professione” come è quella, per esempio, del prete. Prima di procedere devo, però, inserire un tassello logistico. L’Università degli studi di Venezia è molto simile – per chi le ha visitate o frequentate – a quella di Oxford (GB), Münster (D) oppure Berkeley (USA): la Città è una università. Dislocata in un mosaico di sale, anfratti, palazzi, aule, biblioteche, edifici, dipartimenti…., chiese, il grande è tale nel piccolo. Per cui – intendo dire – Emanuele Severino, lasciata l’aula con trecento studenti e studentesse, lo si ritrovava, poi, in “calle” subito dopo lezione, mentre si trasferiva in dipartimento. Così avvenne l’incontro con il Prof. Umberto Galimberti.
Eravamo, dunque, vicini al Natale del 2001. Venezia era ammantata di neve. Troppo ammantata di quel candido biancore e troppo vicina al Natale fu l’ultima lezione dell’anno delle “torri gemelle” perché la Città si concedesse alla folla. Era davvero Serenissima. E in classe quella sera di mercoledì 19 Dicembre eravamo veramente in pochi. Erano, piuttosto, di più i rintocchi della campana che ricordava la “novena” delle 18:30, di fronte all’eco insistente dei quali, però, il Professore, calmo, non batteva ciglio. Tuttavia, la lezione di psicologia dinamica fu ugualmente interessantissima. Alla pari di tutte le altre. E questo nonostante uno studente avesse fatto un intervento interlocutorio plumbeo contro il clero, al quale il Professore non diede, glissando, credito alcuno. Ma io ne rimasi ferito. Assai. Perché io ero prete, allora da otto anni, pur rigorosamente “in borghese” – a filosofia a Venezia si usa così, secondo lo stile del nostro dipartimento – e, quindi, protetto nel mio anonimato. Terminata la lezione, il Professore ci sorprese tutti. Si piazzò alla porta d’uscita e volle porgere gli auguri di Natale a ciascuno, singolarmente, con una calorosa stretta di mano. Tra la sciarpa rossa sbucava un sorriso, diametralmente opposto al grigiore invernale, anche questo tutto veneziano. Non so perché – forse mi “sentivo dentro” i risvolti della battuta dello studente che ora, poi, è un mio amico – ma io feci di tutto per sgattaiolare via tra la fila degli studenti, fuori sulla neve, con una nonchalance certamente poco francescana. Appunto, verso la neve. Il Professore se ne accorse e mi bloccò, dicendomi: «Visto che tu (forse disse «Lei», secondo protocollo) non mi vuoi salutare, allora ci auguriamo buon Natale con un abbraccio». Era quello, per me, l’inizio. Perché avevo capito, all’unisono, almeno due cose: che, come leggeremo in queste pagine, è la persuasione dei sentimenti che “con-vince” e che, talvolta, i preti sono gli altri, ovvero impariamo dagli altri a esserlo. Non credo che il Professore Galimberti mi avesse individuato in quella lezione. Aveva solo scoperto, da una citazione che feci in tedesco, che ero reduce da un lungo semestre a Münster trascorso alla scuola di uno dei più noti studiosi di Hegel: il Prof. Ludwig Siep. Ma, credo, nulla di più. Alla prima intesa nel Natale del 2001 ne seguirono molte altre di significative, perché il Professore sa che si educa amando. Per esempio, quando mi chiamò al cellulare a Caorle (VE) la sera di giovedì 30 Settembre 2004, al termine delle impegnative prove per entrare in Dottorato di ricerca in Filosofia a Venezia, mentre lui stava rientrando in treno a Milano, invitandomi «a non scoraggiarti», lanciando un raggio di luce sulle densi nubi che offuscavano l’arena dei dottorandi, ora totalmente dissipate: che lezione sul “prendersi cura” (mit-sorgen) degli altri! O quando nel Natale di tre anni dopo a me, allora ancora semplice studente, spediva la seconda edizione del suo celeberrimo La casa di psiche con questa dedica manoscritta: «Al mio amico Gianluigi con tanto affetto Umberto 1-1-08». Sono davvero piacevoli i regali, appunto, di Natale. Soprattutto quelli del tutto inaspettati: e quale altra lezione con questa dedica sulla casa di psiche! A sapere: che nessuno al mondo è così “sacro” da potersi permettere di trattenere per sé anche le briciole, quelle che il vangelo assegna ai cagnolini.
Improvvisamente, in via Pacini intravidi, tra le foglie ingiallite e rossastre, il numero civico. Si interruppero i ricordi e percepii che la psiche stava per cambiare casa. Anche se, poi, non fu così. Intesi, dalle informazioni che riuscii a capire dal portiere affatto italiano, di essere atteso. Fu così, perché all’uscita dall’ascensore mi imbattei sul Professore con il cordless in mano. Il quale lo teneva molto impegnato perché non cessava di squillare. Quasi quattro ore di intervista non furono poche. Né per il Professore, né per me. Perché – e qui si rintraccia il pregio di questo libro – il suo dire fotografava in pieno ciò che respiriamo nella nostra Penisola e in Europa. E, così, l’ascoltarlo diventava sempre più “impegnativo” perché coinvolgente. Difficile, non ammettere questo particolare quando si avrà letto questo libro sino alla fine. Se non altro per il fatto che Umberto Galimberti, quando non insegna a Venezia, segue a Milano molte persone in analisi e dirige in un ambulatorio di psicoterapia. Non a caso, pur essendo questo un libro su “Il prete oggi”, esso, però, indaga anche sul rapporto tra vita e religione, parla del cristianesimo, dei giovani, dell’emergenza educativa, del morire, del nostro essere sulla soglia …; insomma, spazia proprio in quelle zone dove – grazie a Dio – si trova ad operare il prete. Ma, appunto, con l’indotto di un filosofo e di uno psicologo che si prendere cura, pressoché ogni giorno, di persone sulla soglia della speranza, ascoltandole affinché non oltrepassino in quella della disperazione. A questo proposito, ricordo che negli anni Novanta, noi teologi italiani avessimo scritto più di qualche riga sulla determinazione relazionale esistente tra biografia e teologia. Conviene qui ricordare le conclusioni cui si giunse[1]. Infatti, in questo libro, forse per la prima volta e a differenza di altri celebri filosofi italiani (Emanuele Severino[2], Gianni Vattimo[3], soltanto per fare due nomi conosciuti), il Professore Umberto Galimberti “rilascia” la sua autobiografia[4]. Le pagine che seguono non si possono, pertanto, leggere senza questa “traccia”. Risulterà, così, che quei passaggi là dove il Professore si pronuncia su alcune tematiche “scottanti” – rese, però, tali perché ultimamente portate alla spettacolarizzazione dai mezzi di comunicazione di massa – vadano interpretati alla luce dell’attività medica che egli svolge nel prendersi quotidianamente cura dell’“altro”. Il teologo e il filosofo accorti, poi, non potranno non accorgersi come tali passaggi siano guidati da un solido argomentare speculativo – ben agganciato alla “tradizione” della stessa filosofia – e che, comunque, debbano essere interpretati dai criteri, per esempio, del “duplice effetto” e del medesimo “probabiliorismo”. Gli addetti ai lavori, inoltre, troveranno in questo libro una sintesi magistrale dei bacini filosofici classici cui la psicologia contemporanea – soprattutto le odierne scuole di psicoterapia – attingono a piene mani. Da questo angolo visuale, il libro che leggeremo, se da una parte è, in un certo senso, divulgativo, dall’altra si colloca tra i testi specialistici di filosofia e di psicologia. Sono sicuro che, se questo libro verrà letto con quella “recta ratio” che ricerca la Verità in ogni suo frammento, allora le idee che il lettore vi troverà risulteranno molto utili al discernimento ecclesiale di quanto sta accadendo attorno a noi, nella città e nel mondo intero, sia egli un lettore prete, oppure no. Con questa consapevolezza, in fase redazionale ho lasciato pressoché inalterato lo svolgimento argomentativo, per quanto nato in stile interlocutorio, dell’Autore – e non poteva essere altrimenti – intervenendo con parentesi quadre ([]) esplicative soltanto là dove ritenevo che al lettore potessero risultare utili. Anche se non tutto di deve spiegare.
Perché un libro alla pari di questo svela e vela, come è giusto che sia. Svela che l’intervista stava cadendo a nemmeno un anno di distanza dalla morte assai prematura della giovane moglie Tatijana, mentre il nipotino Alec sarebbe nato di lì a poco. Svela che il Professore Umberto Galimberti conosce bene i “preti” non solo quelli che segue in analisi, come ha ben intuito il Cardinale Ersilio Tonini che, fino a qualche settimana fa, chiamava ogni altro giorno il Professore al telefono per sincerarsi sulle condizioni di salute di Tatijana. Soprattutto svela la convinzione che Umberto Galimberti ha dei preti: essi sono rimasti gli unici, forse, nel nostro correre quotidiano a poter offrire “amore” e “profezia”, le due parole che, infatti, danno il titolo al libro. Nell’intervista il Professore insisteva parecchio su queste due polarità che dovrebbero contraddistinguere la figura sacerdotale. E mi guardava negli occhi. Come a dirmi che la comunione è fra due persone, le quali sono tanto più persone quanto più sono uniche, e che sono tanto più uniche quanto più sono persone. Cosicché, se questa relazione è un assoluto con Gesù Cristo, allora l’uomo, il sacerdote, passa a vita nuova.
L’intervista si concluse ben oltre l’“ora sesta”. Sapevo di aver abusato della pazienza e del tempo del Professore. Gli squilli del cordless, puntualmente zittito, tenevano desta in me questa consapevolezza unita a quella che entro pochi minuti Umberto Galimberti sarebbe dovuto tornare in ambulatorio. In piena estate. Mi sovvenne in quell’attimo che, quando ero seminarista Cappuccino all’inizio degli anni Ottanta, ci distribuivano un’immagine di ciò che avrebbe dovuto rappresentare la disponibilità del “prete”: un orologio privo di lancette. Sembrava, piuttosto, il caso del Professore, anche a causa mia. Gli chiesi, allora, di potermi congedare. Lui, invece, voleva portarmi in stazione e, per questo, aveva già aperto il sito di Trenitalia. Gentilmente rifiutai. Cosicché mi riaccompagnò alla porta dell’ascensore al sesto piano. Prima di chiuderla ricomparve il sorriso del Natale del 2001 e mi ricordai, dopo otto anni, della sciarpa “rossa”: dell’inizio. Di quel rosso che rallegra gli occhi dei fanciulli con le “stelle di Natale”, ma anche di quel rosso che ha bagnato il legno della croce per non sentire gli spasimi, il legno per non sentire il dolore, il legno di quel figlio del falegname che scelse il legno per morire. Il legno come cosa giusta. La porta dell’ascensore si aprì al piano terra e ripresi a camminare in via Pacini. Dentro la mia borsa conservavo adesso delle bobine che ora si possono leggere a libro, assieme a una nuova consapevolezza: di avere un apocrifo del vangelo in cui la parola “amore” fa rima con “libertà”.
Gianluigi Pasquale OFM Cap.
Venezia, 4 Ottobre 2009
Umberto GALIMBERTI è filosofo, psicologo, psicoanalista e Professore ordinario di Filosofia della storia e di Psicologia dinamica all’Università “Ca’ Focari” di Venezia. Membro ordinario dell’International Association for Analytical Psychology, dal 2003 è vicepresidente dell’Associazione Italiana per la Consulenza Filosofica “Phronesis”. Innumerevoli sono le pubblicazioni a libro e i contributi pubblicati e tradotti nelle principali lingue europee. Editorialista de Il Sole 24 Ore e di La Repubblica, con la Feltrinelli di Milano è in corso di pubblicazione la sua Opera omnia, che raccoglie tutti i suoi scritti.
[1] Cf J.V. Pollet, Zwingli: biografia e teologia, traduzione di Alessandra Gavazzi, Morcelliana, Brescia 1994; J. Moltmann, ed., Biografia e teologia: itinerari di teologi, traduzione di Gianluca Montaldi, (Giornale di Teologia 258), Queriniana, Brescia 1998, pp. 127-146.
[2] Cf E. Severino, Il mio scontro con la Chiesa, (Saggi Italiani) Rizzoli, Milano 2001.
[3] Cf G. Vattimo, Credere di credere, (I Coriandoli), Garzanti, Milano 1996.
[4] Qualcosa veniva anticipato nel saggio di L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti, Prefazione di Carmelo Vigna, Petite Plaisance, Pistoia 2006.