Oggi ci occupiamo del significato teologico nascosto – per così dire – nella venerazione delle “reliquie” di un battezzato dichiarato ufficialmente “beato” dalla Chiesa cattolica, sul pellegrinaggio delle stesse nelle varie Chiese locali e, soprattutto, sull’evidente devozione che i cristiani trattengono per questi salutari resti mortali.
Il termine “reliquiae”
Il termine “reliquiae” era impiegato nell’antichità romana per designare le spoglie e le ceneri di un defunto. Sia, dunque, detto per inciso: la venerazione delle reliquie è, per sé, indipendente dalla tumulazione o dalla cremazione della salma. Successivamente, la devozione per le reliquie dei martiri si è sviluppata assai lentamente nella Chiesa cristiana. Durante le prime persecuzioni si raccoglievano, quand’era possibile, i resti delle vittime per dar loro una sepoltura decente. È il caso di Pietro e Paolo a Roma, di Policarpo a Smirne, di cui si è detto: «Potremmo raccogliere più tardi le sue ossa, più preziose delle pietre di gran prezzo e più preziose dell’oro, deporle in un luogo conveniente. È lì, per quanto possibile, che il Signore ci darà di riunirci nell’allegrezza e nella gioia per celebrare l’anniversario del suo martirio, della sua nascita, in memoria di quelli che hanno combattuto prima di noi e per esercitare e preparare quelli che devono combattere nell’avvenire» (Martirio di Policarpo, 18, 2-2). Sembra proprio di rileggere ante litteram quanto sta avvenendo in questi per le reliquie Giovanni Paolo II a Caltanissetta. Si osserva, inoltre, che le comunità avevano preso l’abitudine di celebrare l’eucarestia sulla tomba dei martiri nel giorno anniversario della loro morte. Tuttavia, a volte, le ceneri dei suppliziati erano disperse e non era possibile venerare i resti; così fu per i martiri di Lione (Eusebio di Cesarea,Storia ecclesiastica, 5, 1, 62).
il culto delle reliquie
A partire dal IV secolo il culto delle reliquie conosce uno sviluppo considerevole. In Oriente non si esita a spezzettare i corpi dei martiri per diffondere più largamente i benefici che sembrano attaccati alla loro spoglia. Così, durante la costruzione di Costantinopoli, si fecero trasportare nelle nuove chiese numerose reliquie. La moltiplicazione dei pellegrinaggi in Palestina, l’edificazione delle grandi basiliche costantiniane sul posto dei luoghi santi introdussero, poi, il desiderio di possedere un nuovo tipo di reliquie, quelle legate ai racconti dei Vangeli. Basta citare il ritrovamento della Croce, della colonna della flagellazione, della pietra su cui era stato sepolto il corpo di Gesù, della pietra dell’Ascensione, della corrispondenza apocrifa fra Abgar, re di Edessa, e il Cristo. Vi era anche l’abitudine di far toccare il corpo dei martiri da un oggetto o da un tessuto prezioso, il che costituiva un pegno. L’afflusso di pellegrini portò ad elaborare un nuovo tipo di architettura: la tomba e il reliquiario erano posti in una cripta con cui si poteva comunicare attraverso un’apertura; nella costruzione che sopraelevava l’altare maggiore, si predispoveva un foro attraverso il quale si facevano passare gli oggetti che dovevano toccare la reliquia. La basilica di San Pietro a Roma – dove il Beato Giovanni Paolo II ha più volte celebrato il sacrificio eucaristico e quello suo personale – fornisce un esempio della concezione di queste “confessioni”. Questa devozione fece nascere un intenso – non possiamo negarlo – commercio di reliquie, a tal punto che il codice Teodosiano ha conservato una disposizione, presa a Costantinopoli nel 386, per cui venne proibito di spostare le ossa dei martiri o di farne traffico alcuno.
L’infatuazione per le reliquie
L’infatuazione per le reliquie si estese ancora durante l’epoca carolingia e durante le Crociate. All’epoca della prima Crociata, si credette di aver trovato ad Antiochia la lancia che aveva trafitto il costato di Gesù; nel regno latino di Gerusalemme si poneva la Croce in testa agli eserciti quando ci si preparava a una battaglia decisiva. Le “importazioni” di reliquie in Occidente costrinsero il Concilio di Lione, nel 1274, a proibire che si venerassero reliquie di scoperta recente, fintantoché non avessero ricevuto l’approvazione del Pontefice di Roma. In seguito, la Chiesa cattolica continuò ad autorizzare la devozione delle reliquie, pur consigliando la maggior riservatezza di fronte a pratiche che potevano deviare in magia o sfociare, addirittura, in sintomi di idolatria. Evidentemente, grazie al clima di rinnovamento sviluppatosi con il Concilio Vaticano II (1962-1962), cui tra l’altro prese parte pure lo stesso Karol Woitjła, quale Padre conciliare nella veste di vescovo ausiliare di Cracovia, certe esagerazioni sono scomparse. Ciò nonostante si deve constatare che permane, soprattutto tra il popolo santo di Dio, questo segno positivo del “senso della fede” grazie al quale ci si affida al solo poter “toccare” la reliquia di un “santo” che abbiamo amato, per trarne benedizione e salvezza/salute. Se mi posso permettere un accenno biografico, io stesso me ne accorsi quando fui nominato membro della Commissione diocesana di Vicenza per l’“extumulazione” del corpo della mia bisnonna materna Beata Eurosia Fabris Barban (1866-1932), la prima beata di Benedetto XVI, il cui “processo”, peraltro, di beatificazione fu fortemente voluto dal Beato Giovanni Paolo II.
La commissione
Ricordo ancora, come fosse adesso, quella primavera del 29 Marzo 2006. Il gruppo dei “commissari” si diede appuntamento in gran segreto al Cimitero di Marola (VI), trovandosi davanti, però, una folla immensa. Blindato anch’io nella stanza con la commissione, osservavo commosso il volto dei fedeli e dei miei cari che guardavano ammirati da dietro un vetro. Provo ancora adesso un grosso nodo alla gola nell’essermi trovato spettatore di quella strana “divisione”, perché gli occhi dei miei cari brillavano di curiosità, ma non potevano toccare la loro “nonna”. E nella mia veste di frate e di teologo sentivo che la potenza della loro fede era molto più forte e genuina della mia. Mi sembra, allora, abbia ragione quanto ha scritto tre giorni fa Umberto Galimberti proprio a riguardo del Beato Giovanni Paolo II: «La sua malattia, la sua sofferenza, la condizione del suo corpo, che tanto hanno commosso i fedeli, ha fatto sorgere quella domanda […] che, a differenza di noi tutti, il papa non abbia considerato più il suo corpo come qualcosa di “suo”, ma come qualcosa di radicalmente e profondamente inscritto nella sua fede, di cui non più lui, ma Iddio solo poteva disporre» (Umberto Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, Milano 2012, p. 165). Ed è vero: ha così tanto sofferto in quel suo corpo per cui oggi, venerando le reliquie dello stesso, in un certo senso lo amiamo di più, sapendo che intercederà per la nostra salvezza e per quella dei nostri cari.