Pubblichiamo, in otto puntate, una riflessione teologica di fra’ Gianluigi Pasquale intitolato “L’esegesi della Scrittura in san Bonaventura. Il modello del Commentarius in Evangelium Ioannis”.
Una storia di salvezza: fatti e parole
C’è un filo rosso che lega la storia dell’umanità dalle origini al culmine della presenza storica di Gesù. «Cristo è il capo dei giusti da Abele fino all’ultimo giusto», scrive Bonaventura riprendendo Agostino; anche se molti vissero prima della pienezza di Cristo, non c’è salvato che non abbia attinto a quella fonte, perché, anche se venne dopo corporalmente, «con la fede egli fu sempre presente a tutti» (42.).
In diversi passi citati in precedenza (cfr. 24., 25., 31. etc.) si rimarca la presenza di Dio nella storia umana; essa, però, non viene riconosciuta e, paradossalmente, quanto più la Rivelazione evolve fino a splendere in Cristo, tanto più cresce parallelamente l’incomprensione e il disprezzo proprio da parte «di coloro che avrebbero dovuto onorarlo di più e dalla cui stirpe aveva preso carne» (26.).
«Venne tra i suoi»: gli Ebrei sono detti suoi sia perché Cristo era «del seme di Davide che era re d’Israele per sempre», sia per una «elezione speciale» del popolo d’Israele. Israele è chiamato da Dio ad essere destinatario delle promesse che si compiono nella pienezza del Verbo incarnato (cfr. 35. e 38.). Il Dottore Serafico, nell’introduzione alla parte del In Ioan.riguardante l’Incarnazione considerata in se stessa, spiega: «Dato che la venuta di Cristo nella carne fu come la venuta del Re, vi si premette il precursore» (17.). Più sotto ne descrive la natura umana, l’ufficio angelico, l’autorità di inviato da Dio, che gli impone il nome di Giovanni (18.) a significare la sua missione: “il Signore fa grazia”; e il Battista appunto «venne per rendere testimonianza alla luce, non perché mancasse di luce, ma per l’utilità dei credenti» (19.); «a causa dell’insufficienza del nostro occhio» (21.) egli venne a preparare la venuta del Re.
Fin da principio la storia dell’umanità è storia di salvezza, preparazione a un compimento che è la fonte del senso di tutto il resto. Illuminante in tale proposito è il Breviloquium:
Sebbene Dio potesse incarnarsi sin dal principio, tuttavia non volle se non alla fine dei tempi, preceduta dalla legge di natura e dalla legge di figura, cioè dopo i Patriarchi e i Profeti, ai quali e per i quali fu promessa l’Incarnazione. Dopo questi, si degnò d’incarnarsi quasi alla fine e nella pienezza dei tempi[1].
Questa pienezza è il «tempo della legge di grazia, […] nella manifestazione della misericordia promessa e al principio della sesta età»: la prima «completa la legge di Scrittura», la seconda «compie la promessa», la terza «esprime pienezza […] in ragione della perfezione del numero senario»[2]. Tre tempi e sette età sono la struttura ordinata della storia dal principio al giorno del giudizio, inizio dell’ottava età[3], e le sette età della sacra Scrittura corrispondono ai giorni della creazione e alle sette età dell’uomo[4].
Bonaventura ha una visione soprannaturale della storia del mondo[5], uno sguardo ammirato verso la totalità dell’opera di Dio che risuona nella Scrittura «simile a una sorta di ordinato e bellissimo canto»[6]. Dio si è degnato di manifestarsi all’uomo, di farsi leggere nello speculum della natura e ancora più mirabilmente in quello della Scrittura: «le gesta compiute nel tempo»[7] sono «lo spazio in cui Dio si dà a leggere»[8]. «Dio non parla solo attraverso le parole, ma anche attraverso i fatti, poiché il suo dire è fare e il suo fare è dire»[9]. Nel Prologo giovanneo, Bonaventura coglie proprio questo agire di Dio (41.) dalla creazione all’incarnazione, con la quale Dio abitò fra noi, mostrò la sua gloria, donò la grazia e la verità, conferendo il potere di diventare figli di Dio. L’Unigenito, ponte tra l’eterno e il tempo, è personalmente Parola e Azione del Padre: egli ha veduto ed è per questo Rivelazione.
L’uomo è capax Dei, ma la sua conoscenza è ferita: teologia e filosofia
Continuando con la nostra lettura sporge un altro binomio quanto mai attuale: il rapporto tra teologia e filosofia. Bonaventura analizza, poi, un passo che risulta fondamentale per ogni esegeta e teologo. Esso dice così:
Le similitudini che si desumono dalle creature non sono mai adeguate trattandosi di Dio, perché qualsivoglia creatura è più dissimile che simile a Dio. Gli eretici hanno errato pretendendo questo, cioè di volerle assimilare del tutto; però in numerosi casi questo è consentito (8.).
In questo passo Bonaventura critica coloro che credono di poter circoscrivere il mistero di Dio con parole umane, cioè dire ciò che è ineffabile. All’uomo, però, non è completamente preclusa la possibilità di balbettare qualcosa di Dio.
C’è una questione (q. 3) sollevata dal versetto 12 del Prologo di Giovanni: «[la luce vera, il Verbo] diede a coloro che credono il potere di diventare figli di Dio»; Agostino, per parte sua, sembra andare in una direzione diversa rispetto a quando afferma: «Poter credere appartiene alla natura»[10], alludendo, quindi alla convinzione che tale potere non venga dato dalla grazia (di Cristo). Il Dottore Serafico risponde:
C’è un potere perfetto e attivo, e questo si dice possibilità della facoltà; e c’è un potere imperfetto e passivo, e questo si dice solo possibilità. Il primo potere viene solo dalla grazia, della quale si parla qui col dire: «Diede loro il potere». Dell’altro parla Agostino (32.)[11].
L’uomo ha un’altissima dignità, la quale lo pone al centro del creato come suo signore e custode: egli è capax Dei, è fatto cioè per entrare in relazione con Dio. Solo nell’incontro con Dio il progetto inscritto in ogni uomo trova il suo compimento. Pur nei limiti inerenti alla sua dimensione creaturale, l’uomo, prima della caduta, poteva vedere «per mezzo di uno specchio e un occhio limpidi» (43.). Tuttavia, in seguito al peccato, speculum e oculus si sono oscurati. Étienne Gilson, coglie il dramma dell’uomo menomato dal peccato anche nelle sue facoltà intellettuali:
Poiché l’homo viator si trova separato da Dio che deve avere per ricompensa, il suo pensiero, pur perfetto, non potrebbe raggiungere la visione faccia a faccia che lo stabilizzerebbe nel proprio oggetto. Di qui quell’incessante movimento che lo spinge da un oggetto all’altro senza mai riuscire a fermarsi e neppure a compiere un serio tentativo di farlo[12].
L’uomo non è in grado neppure di intravedere Dio senza la sua luce spiritualissima:
anche se questa [luce] dà la conoscenza a tutti, non a tutti dà la conoscenza di sé [= di se stessa], perché i peccatori per mezzo di essa conoscono e tuttavia non la comprendono (12.).
Dipendiamo completamente da Dio, che continua a sostenerci nell’essere anche di fronte al nostro rifiuto. Con il peccato e con la mancanza di fede, però, siamo fortemente limitati. Duplice è la letale conseguenza del peccato originale: non solo la concupiscenza della carne, ma anche «l’ignoranza della mente»[13]. La nostra conoscenza è ferita: «l’occhio dell’incredulo è cieco rispetto a Dio» (16.). Le potenze dell’anima, «sensi, immaginazione, ragione, intelletto, intelligenza e sinderesi»[14] che abbiamo «piantate in noi per natura, deformate dalla colpa, riformate dalla grazia, devono essere purificate dalla giustizia, esercitate dalla scienza e perfezionate dalla sapienza»[15]. Solo attraverso la conversione, l’uomo può tornare a fruire della grazia che gli permette di affrontare la luce intensa di Dio[16]. Quando l’anima è di nuovo inabitata dalla grazia, riflette la luce che splende negli ordini gerarchici degli spiriti celesti e il nostro spirito diventa gerarchico, cioè purificato, illuminato e perfetto[17]: la conoscenza è legata alla fede[18].
È interessante, in questo senso, l’elogio dell’evangelista Giovanni che apre il In Ioan. (si veda lo schema del Prooemium). Il Dottore Serafico cita Is 52,13: «Ecco: il mio servitore sarà dotato d’intelligenza, esaltato, innalzato, posto molto in alto»[19]. Il proemio bonaventuriano prende, appunto, le mosse da questo versetto. Giovanni è lodato come servitore di Dio per la santità della vita (Prooem., 2); grazie a questa ricevette il dono dell’intelligenza (Prooem., 3). Comprese, dunque, cose utili, occulte, sublimi; per questa sua triplice intelligenza fu innalzato a una triplice dignità d’insegnamento, sulla cattedra apostolica, con le sue Epistole; alla proclamazione profetica, con l’Apocalisse; per l’insegnamento evangelico, con il Vangelo (Prooem., 4). La fede e il cuore puro sono dunque i prerequisiti per la lettura dello «speculum creationis» e dello «speculum Scripturae»[20].
La filosofia è disumana senza la luce della fede
Sembra opportuno concludere queste considerazioni sulla situazione della conoscenza umana, vista nella realtà del peccato, accennando al rapporto tra fede e ragione – o tra teologia e filosofia – in Bonaventura. Risulta di particolare interesse un brano del Proemio al In Ioan. che riassume e conclude il sermone su san Giovanni, prima di proporre tre questioni[21]. Come da consuetudine del tempo, il Serafico intende aprire la sua opera esegetica analizzando le quattro cause del Vangelo che andrà commentando. La causa efficiente è l’Evangelista Giovanni; la materiale, il Verbo incarnato; la formale, il modo di procedere, «proprio del racconto però inteso alla certezza»; la causa finale prossima, la fede; la causa finale remota, la vita eterna.
Anche se esula dagli scopi della presente ricerca, si potrebbe verificare quale relazione intercorra tra questo uso della terminologia aristotelica e la novità costituita dall’ingresso della filosofia dello Stagirita all’Università di Parigi. È un fatto che la nascita della Scolastica porti con sé il bisogno di dare una struttura razionale, scientifica, ai discorsi sulla fede e sulla Scrittura, e che gli strumenti per una tale rifondazione del sapere vengano da fonti extrascritturistiche, quali sono i trattati aristotelici nelle traduzioni arabe. Bonaventura conosce Aristotele, ne riconosce i meriti filosofici, lo cita spesso, soprattutto nel linguaggio tecnico[22], come nel passo in esame. «Lo ammira ma non lo stima», annota però il Merino[23].
Soprattutto due sue teorie sono, per il Dottore Serafico, inconciliabili con la fede cristiana. Aristotele rifiuta le idee di Platone e quindi l’esemplarismo; così facendo, Dio resta solo causa finale e viene sbarrata la strada al concetto di Provvidenza. Ma «la luce splende nelle tenebre» e il mondo non è lasciato a se stesso, perché Dio è presente in esso e lo conosce[24], a differenza del Motore Immobile.
L’altra dottrina aristotelica contestata da Bonaventura è l’eternità del mondo. Accogliere questo concetto significherebbe in primo luogo stravolgere la Scrittura e dire che il Figlio di Dio non si è incarnato[25]. In secondo luogo, se il mondo fosse eterno, verrebbe meno la causa dell’essere: Dio non sarebbe la causa totale, ma le cose avrebbero paradossalmente l’essere già prima di riceverlo da Dio, il che è assurdo[26]. In terzo luogo, negare la temporalità del mondo significherebbe allontanarsi radicalmente dal cristianesimo, perché implicherebbe l’esistenza attuale di infinite anime immortali e quindi di infiniti uomini, aporia che Averroè tenterà di superare affermando un solo intelletto immortale per tutti gli uomini e negando, di conseguenza, pene e premi individuali dopo la morte; un corollario, quest’ultimo, evidentemente inaccettabile nell’ambito della dottrina cattolica sul giudizio particolare[27].
La storia dimostra, secondo Bonaventura, che la filosofia è stata motivo di rovina ed oscuramento per i filosofi che pretesero d’indagare al di fuori della luce della fede, rendendo la filosofia “disumana”, perché non più mediazione, via ad altre scienze, ma fine della ricerca a se stessa e, quindi, suo termine[28]. Il pensiero dev’essere uno strumento di salvezza e nient’altro[29]: è impossibile elaborare una metafisica adeguata se esso non opera alla luce della fede[30]. Questo accade perché la ragione umana non è kantianamente pura, ma immersa nella storia, legata a persone concrete e, inoltre, ferita dal peccato originale. La fede, invece, dà alla ragione la libertà di mettere in opera tutta la sua potenzialità[31].
Accogliendo questa luce superiore, la filosofia acquista la capacità di penetrare il senso profondo che gli esseri manifestano quando vengono considerati nell’orizzonte della Rivelazione; da parte sua, la teologia mantiene il suo compito di esplicitazione del dato rivelato. Filosofia e teologia, viste in quest’ottica, non si confondono e non si oppongono; esse sono distinte quanto all’oggetto formale (rispettivamente la verità in quanto oggetto di ricerca e la verità in quanto oggetto di fede), ma, dal punto di vista metodologico, la filosofia che non si apre alla conoscenza del Verbo è destinata a rimanere nell’errore e quindi a mancare il proprio scopo di chiarificazione della verità[32]. Platone pertanto fu metafisico, perché scoprì le idee archetipiche, ma non vero metafisico perché non conobbe il Verbo[33]. In Cristo, Verbo di Dio, fede e ragione, teologia e filosofia si integrano armonicamente: egli è medium omnium scientiarum[34]. L’unica ricerca umana che porta frutto è quella che inizia «piegando le ginocchia del nostro cuore» («flectendo genua cordis nostri»)[35].
[1] Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, IV, 4 (V, 244).
[2] Ibid.
[3] Ivi, Prol., 2,1.
[4] Ivi, 2,2-3.
[5] Cfr. J.G. Bougerol, Introduzione generale, p. 53, e G. Pasquale, La salvezza si appoggia alla storia. Una lettura teologica del libro di J. Ratzinger, San Bonaventura, «Il Santo» 48 (2008) pp. 499-519.
[6] Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, Prol. 2,4.
[7] Bonaventura da Bagnoregio, Commentarius in Evangelium Lucae, c. 3, n. 5 (VII, 71).
[8] R. Crivelli, L’esperienza cristiana, p. 257.
[9] Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, Prol. 4,5. Non si può non evidenziare la sintonia tra queste parole e il «gestis verbisque» della Dei Verbum (n. 2).
[10] Cfr. Agostino d’Ippona, La predestinazione dei santi [5.9.-5.10] in Id., Opera omnia. XX. Grazia e libertà, a cura di Agostino Trapè – Maria Palmieri, Città Nuova, Roma 1987, 240-241, qui 241.
[11] Cfr.: «[…] manifeste apparet, quod coniunctus sit intellectus noster ipsi aeternae veritati, dum non nisi per illam docentem nihil verum potest certitudinaliter capere»: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium, III, 3 (V, 303).
[12] É. Gilson, La filosofia di san Bonaventura, a cura di C. Marabelli, Jaca Book, Milano 1995, p. 446; cfr. Sermones, Feria II post Pascha, Collatio (IX, 286).
[13] Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium, I, 7.
[14] Cfr. G. Pasquale, Synderesis, in E. Caroli, ed., Dizionario Bonaventuriano. Filosofia, Teologia, Spiritualità, Editrici Francescane, Padova 2008, pp. 789-797.
[15]Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium, I, 6.
[16] Cfr. ivi, Prol., 4.
[17] Cfr. ivi, IV, 4 (V, 307).
[18] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, Prol., 3.
[19] «Ecce, intelliget servus meus, et exaltabitur et elevabitur et sublimis erit valde».
[20] «Impossibile est, quod aliquis in ipsam [notitia Iesu Christi] ingrediatur agnoscendam, nisi prius Christi fidem habeat sibi infusam, tanquam totius Scripturae lucernam et ianuam et etiam fundamentum» : Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, Prol., 3; «Scriptura quae non intelligitur nisi ab animis mundis» : Bonaventura da Bagnoregio, Collationes in Hexaëmeron, coll. 22, n. 21 (V, 440).
[21] «Ex dictis patent quae in principio cuiuslibet libri consueverunt quaeri, scilicet causa efficiens, Ioannes evangelista, sanctus, intelligens, exaltatus et elevatus et sublimior ceteris effectus; causa materialis, Verbum incarnatum, maxime quantum ad ea quae Divinitatis sunt; causa formalis sive modus agendi, etsi sit per modum narrationis, est tamen certitudinalis; causa vero formalis, quae est divisio libri, infra manifestabitur, quia ordinate valde procedit; causa vero finalis proxima est fides, ultima vero est vita aeterna, quae est finis desideratissimus» : Bonaventura da Bagnoregio, In Ioan., Prooem., 8.
[22] Cfr. J.A. Merino, Storia della filosofia francescana, pp. 65-66.
[23] Ibid.
[24] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, In Ioan., I, 13.
[25] «Ex improbo ausu investigationis philosophicae procedunt errores in philosophis, sicut est ponere mundum aeternum, et quod unus intellectus sit in omnibusan Ponere enim mundum aeternum, hoc est pervertere totam sacram Scripturam et dicere, quod Filius Dei non sit incarnatusan Ponere vero, quod unus intellectus sit in omnibus hoc est dicere, quod non sit veritas fidei nec salus animarum nec observantia mandatorum; et hoc est dicere, quod pessimus homo salvatur et optimus damnatur»: Bonaventura da Bagnoregio, Collationes de decem praeceptis, coll. 2, n. 25 (V, 514). Ho cercato di dimostrare lo stesso concetto anche in G. Pasquale, La teologia della storia della salvezza nel secolo XX (Nuovi Saggi Teologici. Series Maior 3), Dehoniane, Bologna 2002, pp. 133-155.
[26] «Error contra causam essendi est de aeternitate mundi, ut ponere mundum aeternum», Collationes de septem donis Spiritus sancti, c. 8 n. 16 (V, 497). «Primus, dico, error [ponere mundum aeternum] destruit causam essendi: quia tu sentis, Deum esse causam omnium aut secundum partem, aut secundum totum. Si secundum partem: ergo aufers Deo suam principalitatem causandi. Si secundum totum: ergo cuiuscumque alterius Deus est causa: ergo producit illud non de ipso, non de aliquo alio, quia nihil est: ergo de nihilo. – Item, sequitur secundum istum errorem, quod res habuit simul esse et non-esse, et quod esse ante non-esse; et multa alia inconvenientia. Unde certum est, quod Deus omnia creavit.»: ivi, n. 17. Cfr. anche Bonaventura da Bagnoregio, Collationes in Hexaëmeron, c. 4 n. 13 (V, 351), ivi, c. 6 n. 4-5 (V, 361), ivi, c. 7 n. 1-2 (V, 365).
[27] Bonaventura da Bagnoregio, Collationes de decem praeceptis, coll. 2 n. 25 (V, 514) [cfr. supra il testo in nota]. Cfr. anche H.U. von Balthasar, Homo creatus est. Saggi Teologici, V, Morcelliana, Brescia 1991, pp. 41-56 [or. Id., Homo creatus est. Skizzen zur Theologie, V, Johannes Verlag, Einsiedeln 1986], e Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1022.
[28] Cfr. J.A. Merino, Storia della filosofia francescana, p. 59.
[29] É. Gilson, La filosofia di san Bonaventura, p. 444.
[30] Cfr. I. Tonna, Lineamenti di filosofia francescana, p. 60.
[31] Cfr. J.A. Merino, Storia della filosofia francescana, p. 58.
[32] Ivi, pp. 58-59.
[33] Ivi, p. 68.
[34] Cfr. «Ipse enim mediator Dei et hominum est, tenens medium in omnibus»: Bonaventura da Bagnoregio, Collationes in Hexaëmeron, c. 1 n. 10 (V, 330).
[35] Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, Prol. 6.