Continua la pubblicazione, a puntate, del volume “ Sono giovani i santi”, di fra’ Gianluigi Pasquale, edito da “La Fontana di Siloe” di Torino. Oggi il ritratto della Beata Elisabetta Vendramini
Colei che accolse le stigmate dei bambini
Si “vede” quando una persona ti ama. Si “sente” quando un altro o un’altra ti perdonano. In questa occasione vogliamo osservarlo nella Beata Elisabetta Vendramini, una gemma di carità veicolata nella Chiesa nel XIX secolo, prima che nascesse l’Italia. Questa la ragione: il suo nome, in realtà, è legato a “doppia mandata” al caleidoscopio dei volti della misericordia di matrice prettamente francescana e alla Città di Padova, dove il carisma da lei carpito pulsa, ancora oggi, soprattutto nelle adiacenze dove riposa San Leopoldo Mandić. Dal fonte battesimale del duomo di Bassano del Grappa (Vicenza) alla sua modestissima stanza in Padova, all’umile soffitta degli inizi, alle pagine e pagine dei suoi manoscritti gelosamente conservati, alla sua consunta mantellina, alla carrozzella della sua lunga e dolorosa infermità; dovunque, particolarmente per chi l’ha “conosciuta” attraverso le sue suore, è profonda emozione. Soprattutto la vecchia Padova e il complesso della Casa Madre, che nasconde come in uno scrigno le cose che furono di lei, offrendo un vero itinerario storico e spirituale. Iniziamo da questo.
Come se il suo cuore le andasse stretto
È tra i primi tepori di primavera, il 9 aprile 1790, il giorno in cui nasce Elisabetta Vendramini a Bassano del Grappa, Diocesi e Provincia di Vicenza. Il papà Francesco era personaggio assai influente nella vita pubblica dell’elegante Città adagiata sulle due sponde del fiume Brenta. La mamma, Antonia Angela Duodo, apparteneva alla classe nobile di Venezia. Certamente sono anche queste le ragioni per cui Elisabetta, settima di dodici figli, fu presto affidata alle monache agostiniane per acquisire quella formazione che si conveniva, allora, al suo rango sociale. Probabilmente a motivo del suo temperamento “leonino”, da una parte si sentiva romantica, ma, dall’altra, era innamorata con una intensità pari alla propria innocenza di un bel ragazzo di Ferrara, il quale, però, in breve uscì di scena, come lei stessa scrive a proposito delle nozze oramai pronte: «questo matrimonio, proprio per l’amore che io sentivo per tal giovane, mi era agonia di morte» (Diario 23, 5). Per lo stesso motivo lasciò pure il monastero delle Agostiniane. Sembrava che alla stessa Elisabetta il proprio cuore le “andasse stretto” e ricercasse, in realtà, un appagamento all’umano desiderio di amara che andasse oltrela sua stessa saturazione terrena. Un amore più grande si profilava all’orizzonte. E la sua potenza di attrazione appariva irresistibile.
Quando tutto all’intorno diventa improvvisamente estraneo
A ragione il Papa emerito Benedetto XVI, durante un Convegno organizzato a Roana (VI) nel 1977 dall’indimenticato teologo patavino Mons. Luigi Sartori (1924-2007) impressionò l’uditorio nel dichiarare che lo Spirito Santo, quando genera nella Chiesa un carisma, “gode di estraneità perché proviene dall’esterno”. E così, certamente, lo percepirono sia Elisabetta, sia coloro che le erano accanto. Da ciò che sarebbe successo di lì a poco, non vi è dubbio di ipotizzare che Dio stava spingendo Elisabetta oltre il proprio cuore. Il tutto avvenne il 17 settembre 1817 quando quella giovane creatura aveva “soltanto” ventisette anni. Ovviamente era del tutto ignara che qualche secolo prima proprio il 17 settembre quel frate Poverello, di cui il Papa attuale ha scelto di portare il nome, ricevette sul Monte de La Verna le stimmate (1224). Elisabetta non pensava affatto a San Francesco, né alle stimmate. Pensava, piuttosto, e parlava addirittura di faccende di totale banalità: «mi trovavo con delle signore tutta intenta ad udire di una nuova moda di acconciature» (Diario, 32, 6). La superficialità di quella conversazione diede a Elisabetta una sensazione di gelo. Nello specchio della propria coscienza, insomma, vide che tutto – i discorsi, le mode, gli amori, il suo ragazzo di Ferrara, perfino la sua famiglia – le era assolutamente estraneo. La “voce” che le aveva così bruscamente risvegliato la coscienza le disse: «Va’ dai Cappuccini!». «In un istante – si legge con notevole interesse nel Diario – non riconobbi più me stessa; il mondo mi si cambiò in disgusto: lasciai lo sposo a cui ero promessa e non pensai più che a chiudermi in un monastero» (Diario, 33, 1). Cominciarono così i tre anni di attesa.
Anche i bambini, allora come oggi, posso portare le stimmate
C’era in Bassano un vecchio convento francescano. I Cappuccini lo avevano abbandonato ed era stato trasformato in orfanatrofio, proprietà di don Marco Cremona, il quale ne fu anche direttore. Dei «Cappuccini» gli era rimasto, comunque, il nome. Ma proprio lì Elisabetta vide quelle bimbe e quei bimbi, senza papà, né mamma, come delle «mendiche abbandonate» (Diario, 35, 5) a tal punto che le si strinse il nodo della gola in una maniera insopportabile. Elisabetta vide le stimmate in quei fanciulli! Quei tre, furono anni persi per tutti coloro che le volevano talmente bene da non potersi permettere di lasciare che si “rovinasse” nella disperata impresa di aiutare quelle povere ragazze di un orfanatrofio ormai fallimentare e irrecuperabile. Ci si erano messi tutti a farla “ragionare”: il parroco, il confessore, il fratello che la prediligeva. I familiari minacciarono addirittura di toglierle i viveri.
Entrando ai «Cappuccini» Elisabetta stava realizzando il suo sogno: una fraternità di Terziarie francescane consacrate agli ultimi, sulla scia della grandi Terziarie “regolari” di un tempo. Ne condivise subito la forma di vita. Vestì l’abito delle Terziarie, fece regolarmente il Noviziato ed emise la Professione, prendendo il nome di Santa Margherita da Cortona (1247-1297). Più tardi il fratello Luigi, quello a lei affettivamente più legato, dopo la morte del papà Francesco (1842) le propose di accettare l’incarico di maestra nella Casa detta degli «Esposti», un istituto che, inequivocabilmente, si dedicava alla cura dell’infanzia abbandonata. Correva l’anno 1828. Fu in quell’occasione che altre giovani ragazze si unirono a Elisabetta nella fondazione della Congregazione delle Suore Francescane Elisabettine, così chiamate, per la precisione, in omaggio Santa Elisabetta d’Ungheria (1207-1231) e che, a Padova, si distinsero particolarmente durante l’epidemia di febbre asiatica che afflisse la Città nel 1836.
L’inconfondibile cingolo francescano a tre noti avvolto sulla veste bianca
Capito perché le “Elisabettine” così si chiamano, conviene osservare che l’innesto nel grande albero francescano non fu solo di ordine storico, ma anche spirituale. Le levazioni mistiche, di cui sono ricchi gli scritti di Elisabetta Vendramini, e in modo particolare il suo Diario, fanno pensare che la stessa forza di personalità, che lei ha esibito nel consumarsi per i poveri, in una scelta di vita pienamente incarnata alla pari del Poverello, l’avrebbe dimostrata se si fosse dedicata alla vita esclusivamente contemplativa, come avvenne per Chiara d’Assisi. E non vi è tema di smentita nel prestar credito quando Elisabetta dice di sospettare di aver avuto, a nove anni, UN «gran desiderio di martirio […] e qualche saggio di contemplazione» (Diario, 57, 6). Non a caso, dunque, furono proprio i francescani ad addestrarla a questa meta.
Tra questi, IL PIRMO è Padre Antonino Maritani, la guida degli anni della giovinezza, frate minore riformato dalla visione austera della vita, ma che nei riguardi di Elisabetta, si dimostrò «uomo santo pieno di carità e di zelo» (Diario, 62, 3). E ne seguirono altri: Padre Francesco Peruzzo, frate minore conventuale, padre spirituale e consigliere giuridico negli anni dello sviluppo dell’Istituto, religioso di grande esperienza e apertura, padre Ludovico Marangoni, minore conventuale e il Servo di Dio Padre Bernardino da Portogruaro, frate minore riformato, quello che, forse, ne forgiò la spiritualità. Ci furono, insomma, tanti francescani alla guida spirituale di Elisabetta e della sua famiglia religiosa, quasi tutti appartenenti alla rinomata comunità padovana del «Santo».
Non vi sono orfanatrofi solo sotto i tetti
Rispetto all’anno della morte di Elisabetta (2 aprile 1860), giorno pure della sua memoria liturgica, il processo apostolico di beatificazione si aprì relativamente “tardi”, il 12 gennaio 1965. La beatificazione, invece, giunse in breve con San Giovanni Paolo II il 4 Novembre 1990, grazie a un miracolo occorso nel 1936: una suora della sua congregazione, affetta da un’infezione tubercolare con il morbo di Pott, ottenne la guarigione istantanea da questa terribile malattia dopo aver intensamente pregato la Beata Elisabetta. Il che sta a significare che il carisma brillò in tutto il suo splendore proprio nel XX secolo, estendendosi in luoghi eminentemente “francescani”, come la Terra Santa, l’Egitto e molte altre nazioni. In Italia, per menzionare soltanto una tra le case più significative e attuali, le “suore Elisabettine”, sono presenti, sempre sorridenti, nella «Piccola Opera della Divina Provvidenza», conosciuto anche come il “Piccolo Cottolengo di Padova”, fortemente voluto dal Vescovo Cappuccino di Padova Mons. Girolamo Bortignon (1905-1992). Lì, assieme a medici, infermieri e volontari, le figlie della Beata Elisabetta si prendono cura di quelle creature fragili e ai nostri occhi “diversamente normali”, con un amore tale che, proprio lì e per questo, sono fiorite innumerevoli vocazioni alla vita sacerdotale e religiosa, sia femminile, che maschile. Ma vi sono anche altri esempi piuttosto eloquenti. Perché le Elisabettine si occupano pure di quelli che oggi si potrebbero definire gli “orfanatrofi a cielo aperto”.
Sono quei bimbi, talvolta costretti a prendere un aereo con appeso al collo un cartello munito della scritta «without parents» («senza genitori») che appare la scheggia di un’Europa, appunto, il cui scenario si sta presentando oggi come un “orfanatrofio” sotto mentite spoglie: quei bimbi, infatti, si spostato da un capo all’altro del vecchio Continente per incontrare i genitori separati. Grazie alle presenze in Italia e all’estero, insomma, la congregazione ideata dalla Beata Elisabetta Vendramini risponde oggi alle esigenze di una nuova quanto drammatica realtà: curare le stimmate dei bambini, orfani o ammalati. Perché lo sguardo e amorevole di una suora può colmare vuoti a noi inimmaginabili e riempire di stelle quel cielo, che i bimbi desiderano sia tale.