Alza di qualche tono la voce, lei che mi è sempre parsa una sorta di mansuetudine ambulante: anche la leonessa è tale, ma soltanto fino a quando qualcuno non s’azzarda avvicinarsi ai suoi cuccioli. Quando alza la voce, dunque, sembra una furia in procinto di scatenarsi, pur non perdendo il suo aplomb di madre. Mi avvicino all’ingresso, laddove una percentuale di ferro e di cemento fa da divisorio tra il mondo della libertà e quello prigioniero. Le faccio una carezza sul suo volto – rugoso, accaldato, inferocito – e cerco d’allontanarla da quella vetrata scura: basta poco, in certi attimi, a complicarsi la vita. Se poi sei la madre di una persona ch’è rinchiusa in gattabuia sei crocifissa e il gioco è presto fatto: diranno che il frutto cade poco distante dal pero e che uno più uno fa due. «Venga qui con me signora» le dico: non ci conosciamo benissimo, ci siamo soltanto intravisti nelle attese di questi anni. Lei è la madre di uno dei nostri “ragazzi”. Si curva leggermente, riprende le sue due borse, sale in macchina. In quelle borse, la spesa diventa amore: c’è il cibo preferito dal figliolo, sento il profumo del bucato, vedo un maglione per attraversare l’inverno, il pane fatto in casa. Delicatezze di madre in attesa d’andare ad abbracciare suo figlio. Lei, la mater dolorosa, continua imperterrita il suo Giro d’Italia: avrà ottant’anni, è senza nessuna ammiraglia al seguito.
Caffè, brioche e una domanda: «E’ successo qualcosa? Prima l’ho sentita alzare la voce e mi sono preoccupato» le chiedo, mentre le asciugo la punta del naso dalla schiuma del caffè. Potrebbe essere mia madre: lo fosse davvero, amerei che una persona qualunque non la facesse sentire sola nell’attimo del dolore che ruggisce. Il suo sguardo si umilia, fino quasi a consegnarmi una caparra di vergogna: «Non è successo niente. È che sono sfibrata, non ce la faccio più: alla mia età è sempre più difficile fare questi viaggi notturni della speranza per venire a trovare mio figlio. Sono troppi anni che giro l’Italia come una trottola. Poi, quando sono così, mi basta poco per perdere la pazienza. Come poco fa». Il volto di una madre che si confessa è un romanzo a cielo aperto, la trama di un film, la bozza di una storia: è l’urgenza che cerca la grammatica più veloce per dirsi. Tengo fissi i miei occhi su di lei: la sua bellezza è navigata, le rughe sono pennellate di Chagall, le parole hanno tratti di passione. Mi piacerebbe chiederle come fa una madre a non arrendersi mai. Non serve chiederglielo: «Ogni volta che mi sembra di essere presa in giro dal suo comportamento gli dico: “E’ l’ultima volta che vengo a trovarti, sappilo!” Poi – una lacrima le attraversa il viso -, siamo mamme e abbiamo problemi di memoria: ci scordiamo che l’ultima volta avevamo giurato che sarebbe stata l’ultima. Sempre così». Questa forma di amnesia la conosco bene anch’io: essere figlio, poi, è dimenticarsi che l’ultima volta avevamo giurato a nostra madre che sarebbe stata l’ultima volta che l’avremmo fatta soffrire. Il destino di entrambi, «come foglie d’autunno» (G. Ungaretti), è di stare appesi al ramo dell’ultima volta. Con la salvietta si pulisce la bocca dalle briciole di brioche: «Ogni qualvolta mi chiama dice sempre la solita storia: “Mamma, l’avvocato dice ch’è questione di giorni e mi scarcerano. Tieni il telefono vicino». Da anni se ne sta appesa ad una “ questione di giorni”.
Poi usa le mani come scudo protettivo alle sue parole: «Mi vergogno persino a dirglielo, ma lei è un prete. Quasi mi confesso: ultimamente mi ubriaco la sera per riuscire a prendere un pò di sonno». Penso alle parole di uno scrittore: «Un uomo intelligente a volte è costretto ad ubriacarsi per passare il tempo tra gli idioti» (E. Hemingway). Il mondo le ha cucito addosso la gogna: “E’ la madre del delinquente”. Tolto il nome, la dignità, la compagnia. Lei, seduta al tavolino, mi porta la sua vergogna. Le accarezzo il volto, è una forma di assoluzione affettiva, di comprensione umana ch’è molto di più. Cosa dire ad una madre in stato d’allerta, sul punto di mollare il suo figliolo alla solitudine nera ch’è destinato se la madre abbassa le serrande della sua misericordia? «Poi mi sento tremendamente in colpa quando prendo sonno» dice piangendo. In colpa di cosa? «Ho paura di non sentire il telefono che suona. È se suonasse davvero?» Nessuno mi aveva mai spiegato cos’è l’Avvento come questa madre. Che, quando mi saluta sulla porta del carcere, trova pure il coraggio di regalarmi un cenno di sorriso.
Buon Avvento!