L’ospitalità ai pellegrini, da sempre, ha caratterizzato il monachesimo, fin dai suoi albori e, in modo particolare, durante tutto il medioevo, entrare un monastero equivaleva ad essere accolti. Chiunque tu fossi, da dovunque tu venissi. Non solo: è così fondamentale questo aspetto che, ancora oggi, bussare ad un monastero rimane un punto fermo di speranza, per chiunque viaggi con uno zaino in spalla e poche pretese.
Del resto, nella Regola benedettina (VI secolo), troviamo scritto, espressamente:
«Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”»
e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini.» [1]
Nessuno stupore che ciò sia dovuto a familiarità con il quattordicesimo capitolo del vangelo giovanneo, che ci mostra un Cristo preoccupato di illustrarci la generosa disponibilità di accoglienza della casa paterna, a fronte della quale “possiamo stare tranquilli”, mettendo a tacere il turbamento del nostro cuore.
Ritorno all’Ultima Cena
La liturgia ambrosiana ci catapulta, infatti, nuovamente, in quella concitata ultima cena, tra un Pietro-spaccone, un Giuda-guardingo ed il resto della combriccola confuso e disorientato, di fronte agli ultimi insegnamenti del Rabbi di Nazaret.
È dolcemente premuroso, questo Cristo del quarto vangelo. Il suo cuore è in tumulto, in vista delle ultime ore terrene: freneticamente, cerca di assicurarsi di poter lasciare quella scalcinata banda d’uomini di Galilea a continuare la costruzione del Regno senza di lui. Nonostante ciò, è ai loro, di cuori, che pensa. Non riesce a scollare gli occhi da quei loro cuori, così piccoli, fragili, indifesi, pieni di domande e desiderosi di rassicurazioni.
La topografia di Tommaso
«Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?»[2] domanda Tommaso. Chiede concretezza, precisione. Non gli basta l’approssimazione. Seguire Cristo non può essere lasciato al caso. È come l’amico che non esce di casa senza una mappa del percorso da seguire. Uscire equivale – sempre – a progettare un tragitto da percorrere, con tappe intermedie, punti di ristoro e soste programmate. Ma se la meta è il cammino, il tuo arrivo è già alla partenza. Così è con Cristo, se camminare con Cristo è il fine della vita: l’obiettivo è accogliere con sé, nel cammino quotidiano, tra le incombenze e le commissioni, tra il moccio al naso di un figlio e un collega da sostituire, tra un’obbedienza da seguire e un nuovo priore da accompagnare nella missione di essere padre e guida e non padrone ed usurpatore…perché forse, per il cristiano, la preghiera più impegnativa è vivere con Cristo, dal mattino alla sera, più ancora che dedicare del tempo a Dio ogni giorno.
Il desiderio di Filippo
«Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me»[3]
Filippo, uomo di desiderio, esterna quello di scorgere il volto di Dio. Se dovessi pensare qualcosa che caratterizzi l’uomo è proprio questo: il desiderio. Chiunque desidera. Esauriti i bisogni, non rimangono che i desideri. Più o meno elevati, più o meno complessi. Dimmi che desideri e ti dirò chi sei.
«Di te ha detto il mio cuore: “Cercate il suo volto”. Il tuo volto, Signore, io cerco»[4] domanda il salmista che, con il suo, rivela un po’ anche i desideri del nostro cuore.
Cristo, volto del Padre
Eppure, non sempre ci è così facile vedere il volto di Dio, quando la vita, prima che difficile, rischia di portarci noia. Quando, imperniata alla ricerca del divertimento, notiamo che Cristo ci scomoda e ci chiede di decentrarci. È tremendamente necessario. Per guardarlo negli occhi, non possiamo guardare fisso solo il nostro ombelico.
Cristo è volto del Padre, perché ci dice le parole del Padre e compie le opere del Padre. Cristo e il Padre sono una cosa sola perché ciascuno ha rinunciato a rivendicare il primato, a stabilire confini, a sottolineare termini alle proprie competenze ed incombenze. Nel volto di Cristo, che è volto del Padre, possiamo intravvedere il vero volto dell’uomo, che si concretizza in quel comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Perché, come avrà l’ardire di affermare Agostino: «Tu non puoi dire: Amo il fratello ma non amo Dio. Allo stesso modo che menti quando dici: Amo Dio, se non ami il fratello; così ti inganni, quando dici: io amo il fratello, e poi ritieni di non amare Dio. Necessariamente, amando il fratello, ami l’amore stesso. L’amore infatti è Dio; e chi ama il proprio fratello, necessariamente ama Dio»[5].
L’amore è il lascito di un Dio che ama da morire, perché solo l’amore può rivelare il volto di un Dio così. (Sulla strada di Emmaus).
Rif. letture festive ambrosiane, nella III domenica di Pasqua, anno B (At 16, 22-34; Col 1, 24-29; Gv 14, 1-11a)
Fonte immagine: ilcaffeonline
[1] Regula Benedicti, capitolo 53
[2] Gv 14, 5
[3] Gv 14, 8 – 11
[4] Sal 27, 8
[5] Agostino, commento alla prima lettera di Giovanni, omelia 9. 10