Se ti venisse chiesto di individuare un principio centrale della fede cristiana, da dove cominceresti? Esiste qualcosa che salti subito all’occhio, una dichiarazione di fede o di comportamento, senza la quale il cristianesimo rischierebbe di ridursi, nel migliore dei casi, a una delle tante banalità edificanti del pensiero secolare?
Che dire allora del principio secondo cui la forza si compie nella debolezza, secondo cui la potenza e la pienezza emergono proprio dal vuoto e dall’esaurimento? L’idea, cioè, che la gloria e la maestà si rivelino nei miti e negli umili di cuore?
Ma attenzione: non dobbiamo considerarla soltanto un’idea o un concetto, per quanto attraente dal punto di vista etico. Perché, nel momento in cui lo facciamo, rischiamo di trasformare il cristianesimo in un’astrazione. E nessuno vuole aderire a un’astrazione, tanto meno soffrire o morire per mantenerla viva. Se proprio dobbiamo darle un nome, chiamiamola paradosso, nel senso di una contraddizione apparente che si rivela, sorprendentemente, vera. “La verità che si mette a testa in giù per attirare l’attenzione”, come disse una volta Chesterton — il cui esempio più sconvolgente è il Dio morente, le cui mani infantili “crearono il sole e le stelle, ma erano troppo piccole per raggiungere le enormi teste del bestiame.” “Su questo paradosso,” insiste Chesterton, “si fonda tutta la letteratura della nostra fede.”
E applicato a noi, questo paradosso diventa il tema del chicco di grano che cade nella terra, perché solo morendo può dare vita; del granello di senape, le cui prospettive superano ogni aspettativa. Come può qualcosa di così povero, così insignificante, avere un destino più grande delle stelle? Un destino che non solo sfida la morte e la distruzione, ma paradossalmente ne segue il cammino, se non addirittura se ne nutre? Come ci ricorda Eraclito: “La via in salita e la via in discesa sono una sola e medesima via.”
Tutto, nella vita naturale e in quella di grazia, testimonia questa verità. Nulla può essere reso integro se prima non è stato spezzato. Il seme deve spaccarsi prima di diventare spiga. La terra va rotta prima di poter dare un raccolto. Le nuvole devono aprirsi prima che cada la pioggia. E come crescerà il grano, se non per darci pane? E cosa si fa col pane, se non spezzarlo per nutrirsi, in particolare in quel pasto tanto necessario quanto sublime: l’Eucaristia, il Grande Banchetto della Fede, senza il quale resteremmo affamati per sempre?
Non dobbiamo dunque temere di diventare “cose spezzate”, perché è proprio così che Dio ci risolleva. Egli ha grande esperienza, del resto, nell’abbattere i potenti dai troni per innalzare gli umili. Chiedetelo a Nostra Signora, che, nella sua totale apertura a Dio, fu colmata di beni, mentre i ricchi furono rimandati a mani vuote. Lei, che fin dal primo istante della sua esistenza, era più giovane del peccato, come la descrive con sublime bellezza Bernanos nel suo meraviglioso romanzo Diario di un curato di campagna:
“Nessuno ha mai vissuto, sofferto o morìto in tale semplicità… perché è NATA senza peccato — in quale straordinaria solitudine! … La Vergine era Innocenza. Pensate a cosa dobbiamo sembrarle noi, esseri umani. Certo, odia il peccato, ma in fondo non l’ha mai conosciuto, quell’esperienza che neppure i santi più santi hanno mai ignorato… Gli occhi di Nostra Signora sono gli unici veri occhi di bambino mai alzati verso la nostra vergogna e il nostro dolore… occhi di pietà mite, di tristezza stupita, e con qualcosa in più, mai ancora conosciuto o espresso, qualcosa che la rende più giovane del peccato, più giovane della razza da cui è nata, e benché Madre, per grazia, Madre di ogni grazia, è la nostra piccola sorella più giovane.”
E mi domando: che cosa significherebbe vivere in questo modo? Come cambierebbe la nostra vita se fossimo davvero così giovani? Chesterton dice che nel momento in cui usciamo dal confessionale, appena assolti, abbiamo cinque minuti di vita. E se molti di noi desiderano essere così giovani, Maria lo è stata ancora di più. Come si spiega? Cosa significa?
Significa che lei è la perfezione di quella povertà di spirito di cui parla Cristo nel Discorso della Montagna, indicandola come la prima di tutte le beatitudini. Significa che il Regno di Dio le appartiene, fino in fondo, perché non solo le sue scelte, ma la sua intera esistenza è definita dalla dis-possessione, da un’apertura a Dio così totale che nulla del proprio io potrà mai ostacolare questa accoglienza. La sua disponibilità a ricevere, verginale dall’inizio alla fine, è tanto radicale quanto il suo desiderio di donarsi. Non vi è limite in nessuno dei due gesti, né ostacolo alcuno alla povertà che contraddistingue il suo spirito.
“L’abbandono a Dio,” scrive Gertrude von le Fort, “è l’unico potere assoluto che la creatura possiede.” Se è vero, allora nessuna creatura è più potente di Maria, che subito si è abbandonata totalmente. Non solo con mente e volontà, ma anche con la memoria, divenuta — come dice Hans Urs von Balthasar — “la tavoletta immacolata sulla quale il Padre, mediante lo Spirito, poté scrivere tutto il Suo Verbo.”
Dunque, ancora una volta, chi sono i poveri di cui Cristo parla all’inizio del suo discorso sul monte? Sono quelli che non hanno nulla da difendere, nulla a cui aggrapparsi per paura che qualcuno lo porti via. Liberi da ogni possesso, non devono costruire muri attorno a sé per proteggersi. E poiché desiderano solo la verità, non possono essere distratti da nulla di meno della verità. “In verità vi dico — dice Gesù — se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” (Matteo 18,3). Non è un invito a regredire all’infanzia, ma a diventare fanciulli nello spirito, con occhi spalancati e pieni di desiderio di verità, al punto che, come Maria, chiediamo soltanto che tutto avvenga secondo la Sua Parola.
“Persevera,” esorta il vecchio parroco il giovane sacerdote protagonista del dramma di Bernanos:
“Prega la Santa Vergine. È, naturalmente, la Madre dell’umanità… ma anche sua figlia. Il vecchio mondo, il mondo prima della Grazia, l’ha cullata nella sua culla. Per secoli le sue vecchie mani hanno protetto colei di cui non conosceva nemmeno il nome. Una bambina, questa Regina degli Angeli! E tale è rimasta, non dimenticarlo mai.”
L’autore per il National Catholic Register
Regis Martin, S.T.D., è professore di teologia e collaboratore del Veritas Center for Ethics in Public Life presso la Franciscan University di Steubenville, in Ohio. Conduce il podcast In Search Of The Still Point ed è autore di Looking for Lazarus: A Preview of the Resurrection. Il suo libro più recente, pubblicato da Sophia Institute Press, è March to Martyrdom: Seven Letters on Sanctity from St. Ignatius of Antioch.