Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Un’altra comparazione vuole essere stimolo a perseverare sull’aspra via della contemplazione, in questo vero e proprio Cammino di perfezione, come recita il titolo di un’opera di santa Teresa.
Averai inteso quello che in cielo i santi fanno, cioè che contemplano Dio: comincia ancor tu in terra a contemplar Dio. Contemplazione è quell’eccesso mentale e quella fiamma che sente l’anima e quel desiderio intenso che senti entro l’anima tua che ti spinge a sollevarti in Dio a guisa d’aquilla che, sollevandossi dalla terra vola alto e fissa gl’occhi suoi nel sole materiale: così l’anima, calda de l’amor di Dio, si solleva dalla terra al cielo, fissa gl’occhi mentali dell’anima nel sole Cristo: ivi a guisa de’ santi che rimirano nel specchio della divinità veggono in Dio quelle cose che non è lecito di parlarne con uomini mortali: così l’anima, essendo unita a Dio, rimira nell’istesso specchio nel quale rimira l’anima beata. Ivi vede le grandezze, le ricchezze, maiestà del suo vivente Dio: vede cose tante e tali del suo Dio che si sente tutta a liquefare come neve al sole e come cera al fuoco, e resta l’anima com’imbriacata, e quest’ebrietà la solleva a maggior lume, a maggior cognizione: perché un’anima contemplativa si può con verità dire che sua conversazione sia più in cielo che in terra (conversatio nostra in coelis est [la nostra cittadinanza è nei cieli (Fil 3,20)]. (Scala, 196-197)
Il premio dei contemplativi, prima ancora di quello eterno, è già di questa terra, a malgrado la durezza della disciplina necessaria per arrivare a tanto.
O felice vita de’ contemplativi, poiché stando in terra vanno nei cieli, fanno in terra quell’officio che fanno i santi in cielo, godono qui in terra una capara di quella gloria che godono li santi in cielo! O felice stato d’uomini mortali che, vivendo in terra, fanno vita d’angeli, conversano più in cielo che in terra! O bene aventurate anime, poiché di terreni si fanno celesti per mezzo della contemplazione de’ divini misteri! (Scala, 201)
Tutto il tempo della vita tua la passione del tuo Salvatore ti debbe esser cibo, beveraggio, nutrimento, fortezza, aiuto, gaudio, allegrezza, poiché in verità lo sa Dio se sotto il cielo si può far maggior bene quanto è il frequente contemplar la passione e morte del Nostro Signore. Alla memoria della passione del Signore invito tutti li contemplativi acciò facciano il suo nido in quelle celeste ferite, tingendo l’anime sue in quel prezioso sangue, con il quale furono lavate e purificate, liberandole dalla morte, dandoli la vita acciò contemplassero, amassero, servissero il suo liberatore ed anco redentore. (Scala, 204)
Se l’immagine può sembra un poco macabramente pre-barocca, che dire di quest’altra che sembra anticipare quelle acquasantiere a forma di tridacna, di enorme conchiglia, che avrebbero trionfato nel XVII secolo maturo?
Ed il contemplativo è a guisa d’ostrica, che aprendossi raccoglie in essa la rugiada celeste ed in essa genera perle di gran valore; così il cuore de’ contemplativi: hanno aperto il cuore riccevendo in esso ruggiata celeste; ove rinchiudendo il cuore genera perle di gran valore, essendo il proprio cuore ripieno d’infoccati ed ardenti desideri verso l’amato suo Cristo, prorumpendo in gemiti, in sospiri, che alcune volte si senteria a crepar il cuore d’amore, e prorompendo lagrime a guisa di perle li caderanno da gl’occhi. (Scala, 222)
Ancora santa Teresa d’Avila sembra influenzare Fra Tommaso nella descrizione dello stato di contemplazione, così simile all’oración de arrobamiento, alla «preghiera di rapimento».
Quanto sia grande ed eminente il stato d’un uomo che sia in stato di contemplazione, solo l’istesso Dio lo può saper, imperoché è un stato tanto dolce, soave, delizioso, ameno, dilettevole, nobile, potente, ricco, grande, alto, sublime: insomma, è una caparra dell’eterna fruizione, è una reque, una pace interna ed esterna, è un lettuario composto da Dio, che lo stesso Dio lo dà se non a grand’innamorati suoi. (Scala, 225)
Ecco, di fronte a tanta grazia, erompere il frate predicatore, il fustigatore di costumi che, in quel suo scorcio di XVII secolo, non eguagliano l’epoca eroica del Cristianesimo, quando, come sovrappiù di dedizione all’unico Dio, vi era spesso il rischio del martirio e occorreva la fede integra, intransigente, vorrei dire atletica dei grandi santi.
E per far questo, oh quante penitenze quelli santi anacoriti davano a’ suoi corpi, e anco avevano da fare a tenerli sugeti! E come faranno quelli spirituali che tengono li suoi corpi morbidi dandoli ogni commodo, volendo tute le cose al senso e la carne? O tempi lacrimabili! Ove sono li Paoli, li Pacomi , li Franceschi, li Antoni, li Macari, li Benedetti e comunque li santi anacoriti, che il bever acqua fresca era riputata lussuria? (Scala, 369)
Ma, per avvicinare anche soltanto quei campioni della fede, che cosa occorre, insomma, al contemplativo del suo tempo, come a quello di ogni altro tempo, passato o futuro? Qualcosa di estremamente semplice e, insieme, di sommo: Gesù.
O amabile Gesù, altro bene non voglio, altra ricchezza non bramo, altro tesoro non desidero, né altro Paradiso voglio; voi, o santo Gesù, sarete il mio Paradiso. E più goderò nell’Inferno con voi che se io fussi in Paradiso senza voi. Voi solo bramo, cerco, desidero, né altro voglio né in questa vita né nell’altra che voi solo. A voi e per voi darei il cielo, la terra e tutte le cose create: il mio cuore non può più capire altri che voi, o clementissimo Dio. (Scala, 141)
O Signore, non vedete ch’io muoro? Non più, Dio, ché mi chiamo vinto: a voi, o dolcissimo Gesù, mi dono perpetuamente, a voi mi consacro di tutto me stesso al vostro beneplacito; vita, morte, Paradiso, Inferno, vita breve, longa, consolato, afflitto, il tutto voglio per voi, e fuori di voi mora, perisca tutto quello che può esser per me: periscan per voi le proprie passioni mie, l’amor proprio; a me basta l’amor vostro puro e purissimo. (Scala, 142)
Perché Gesù è amore, amore infinito, perpetuo, totale, incomparabile. E, avviandosi questo capitolo alla sua fine, sarà forse non inutile ribadire la necessità dell’unione della sapienza umana e dell’amore divino, in una sorta di ritorno ciclico a quelle piaghe di Cristo da cui siamo partiti:
E chi mi vuol intendere m’intenda con l’amore, amando il nostro redentore, perché invano s’affaticherà chi mi vorrà intendere con la sua sapienza senz’amore; ma la sapienza congionta con l’amor s’impara alle piaghe del Nostro Signor Gesù Cristo. (Scala, 175). (94).