Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Preghiera come meditazione, meditazione come preghiera
«Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Da queste parole di Gesù ai discepoli, prima di essere catturato dalle guardie condotte da Giuda, discende la mistica cristiana, guidata da questa ricerca dell’unione con Dio, in Cristo.
Già sant’Agostino aveva chiarito che la mistica non può accontentarsi di un semplice sforzo soggettivo, poiché ha l’assoluta necessità dell’aiuto di Dio, l’unico che, se l’uomo si dona a Lui, a Sua volta si dona all’uomo, inondandolo di grazia. La necessità di un atteggiamento che, mentre è speculativo, è però anche e forse soprattutto affettivo nei confronti di Dio è il successivo contributo alla mistica dato dallo Pseudo-Dionigi Areopagita con il De mystica theologia.
È in questo solco, cioè in una mistica dell’essenza, che si muove Fra Tommaso; un solco che ha precedenti, tra i tanti, in San Bernardo che indica nella crocifissione di Cristo, anzi, nel Cristo crocifisso il più essenziale obiettivo di adorazione, parole molto vicine a quell’«ispirazione dalle piaghe di Cristo» che Fra Tommaso ha sempre dichiarato essere il motivo fondamentale, se non unico, della sua opera scritta.
E se bene vuoi studiar, leggi frequentemente quelli cinque libri delle piaghe del crocefisso, poiché altra strada non puoi trovare che il camino di questo appassionato Cristo, il quale amaestra li suoi scolari nella solitudine dell’amor suo, tingendo la pena nel calamaro del suo costato, scrivendo entro al tuo cuore la dura ed aspra morte del tuo redentore, legendo tutto il tempo della vita tua la passione e morte del tuo Cristo, piangendo e gemendo, e pregando questo Dio con tanto maggior amore, a gloria dell’eterno Dio, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, tre persone ed un solo Dio. (Scala, 112)
È naturale che, dati questi presupposti, la meditazione incessante, di giorno e di notte, diventa la via maestra per avvicinarsi a quello stato speculativo che, in qualche modo, pare «stimolare» l’indispensabile aiuto di Dio al fine di conseguire l’unione con Lui.
E l’espressione «di giorno e di notte» non è certo un semplice modo di dire.
O felice anima che portarà la passione e morte de Cristo scolpita nel cuore per meditarla giorno e notte! O felici occhi che spargeranno frequente lacrime per pietà verso il suo Gesù! (Selva, 233)
Tuttavia, non è meditazione piana, poiché, come si disse, è costantemente concentrata sulle piaghe del costato di Cristo, e porta dunque con sé uno strazio tanto più doloroso, quanto più la meditazione sarà profonda, consapevole, efficace.
L’anima mia non può veder tanti vostri dolori: meglio sarà, o Gesù, che mi private de vita, e si pur volette che io resti al mondo, concedetemi grazia di sempre piangere e gemer per memoria de questa vostra passione, aciò consumi la vita mia per amor vostro; e, commemorando la vita vostra e morte, possi esser commemorato dalla maestà vostra con darmi grazia di sempre amarvi e servirvi in questa valle de lacrime e finalmente esser introdotto nella felice patria e sine fine laudar e benedirvi, veder e goder quelle ferite che ancora porta la maestà vostra per gloria vostra e contento de’ vostri santi, e in particolar de quegli che furno devoti della vostra amarissima passione. Amen». (Selva, 234-235)
Un amore ambivalente
Un amore quasi ambivalente, poiché, se l’amore di Dio per l’uomo fece sì che Cristo fosse mandato tra noi, questo stesso amore redentore fu causa di immenso dolore per il Figlio e la meditazione non può non cogliere nell’oggetto amato l’intrinseca contraddizione umana di amore per il Salvatore e strazio per le sofferenze che a Lui furono necessarie.
E chi può capire questo vostro amore? O amor di Dio, debbo lamentarvi di voi, non già perché, se fusti amaro al mio Dio, fusti tanto più dolce a me, perché per mezzo vostro fui riconciliato con Dio e d’inimico divenni amico della maiestà sua. O amore di Dio, fusti cagione dell’aspra morte del mio redentore, e io, di morto ch’era, sepolto nel peccato originale ed attuale, fui resuscitato da morte a vita mercé a voi, o povero amore del mio Dio. Mi lamento, o amor del mio Dio, che facesti tanto male al mio Signore; mi rallegro ch’a me facesti un tanto bene. Piangerò la morte del mio Gesù e mi rallegrerò della vita mia: mi lamento, o amore, che menasti il mio Dio dal cielo in questa bassa terra a patire tanti dolori, e mi rallegro d’ascender al cielo. Io mi lamento giorno e notte lagrimando e singultando, o amore di Dio, poiché menasti il mio Gesù per trentatré anni in un continuo conflitto; mi goderò ch’a me daste una perpetua pace. (Scala, 148)
Ma la meditazione non è che la fase preparatoria; è il semplice sforzo soggettivo già considerato, come vedemmo, insufficiente, da solo, da sant’Agostino. È la contemplazione la vera condizione attraverso la quale ci si fa «invadere da Dio». Pregava già santa Caterina:
«Spirito Santo, vieni nel mio cuore, per la tua potenza tiralo a te, Dio vero.
Concedimi carità e timore.
Custodiscimi o Dio da ogni mal pensiero.
Infiammami e riscaldami del tuo dolcissimo amore,
acciò ogni travaglio mi sembri leggero.
Assistenza chiedo ed aiuto in ogni mio ministero.
Cristo amore, Cristo amore»[1].
E santa Teresa d’Avila (Il castello interiore) collocava la preghiera del rapimento al gradino supremo della meditazione: una sorta di estasi in cui l’anima rinasceva alla Grazia, come un fiore alla pioggia.
Fra Tommaso non è da meno:
E per cominciare dirò, aiutandomi voi, o Dio dell’anima mia, la contemplazione è un atto purissimo che fa l’anima amante: sollevandosi in Dio, lasciando la terra, vola nell’amato suo, perché, essendo unita l’anima per amar, fuori del suo oggetto non trova requie né riposso. (Scala, 135)
[1] Caterina da Siena, Le lettere alle autorità politiche, militari e civili, a cura di U. Meattini, Milano, Paoline Editoriale Libri, 19935, p. 8.