Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
«Olivetto, cagione di ogni giubilo»
Fra Tommaso non vide mai il petroso fianco del monte Uliveto, in cui gli alberi da cui avrebbe preso il nome sono spariti da secoli, sostituiti da decine di migliaia di tombe ebraiche. Ma come negare che la sua anima, invece, lo salì e lo abitò per il tempo necessario ad assistere alla Trasfigurazione del Signore?
Quanto, infatti, il corpo mortale del Beato non poteva fare, la sua fede gli consentiva, non di immaginare, ma di «vedere» con la stessa certezza e nitidezza con cui noi vediamo questo libro. E anche di più, in quanto egli «sentiva», non certo con l’udito ma con ogni fibra del proprio essere, ben oltre ciò che chi scrive qui o chi legge possano percepire le pagine che hanno sotto gli occhi.
E il suo racconto è ricco di dettagli, di chiamiamole «interpolazioni» che rendono la magnificenza ormai barocca in cui egli doveva «vedere» quell’Ascensione che i Vangeli e gli Atti degli Apostoli appena sfiorano.
Non soltanto. È per Fra Tommaso anche l’occasione per definire meglio il ruolo di Maria che è ormai la guida, la consigliera, la madre degli apostoli, capace di spiegare l’inspiegabile, di sostenerne la fede.
Si partì la santa Vergine con la compagnia apostolica, con altri disepoli, con la santa Madalena a la volta del monte Olivetto. Oh che raggionamenti, oh che colloqui doveva far questa santa compagnia! Ognuno raggionava di Dio: chi raccontava una cosa, chi un’altra; la santa Vergine risolveva li dubi che nassevano, consolava ognuno, faceva animo ora a uno ora a l’altro, li istruiva a preparar li loro cori per veder assender con maestà al cielo l’unigenito suo filiuolo. (Selva, 281)
Ed eccoli al monte Uliveto sulla cui cima Cristo aveva comandato loro di raccogliersi. È sempre Maria che guida questo gruppetto così smarrito, così bisognoso di qualcuno che lo accompagni, come se ogni apostolo, non ancora invaso della luce dello Spirito Santo, avesse perso ogni capacità di agire, pur mantenendo la fede, ma una fede passiva, incapace di sostenere il peso che (nessuno di loro sembra ancora averlo compreso) da quel momento in avanti dovrà sostenere, sfumatura psicologica che soltanto in filigrana si può cogliere nei Vangeli.
Ove finalmente essendo giunti a l’Oliveto, si accomodò quella beata compagnia nella cima di esso monte ove era un luoco dellizioso, pieno di vaghi olivari, ripieno di vaghe delizie, che prevedevano la venuta del loro Signore. Ove comodati e genuflessi, parme vedere quella celeste colomba Maria nostra Signora che accomodava quelli cari figli a modo di corona ed essa in mezo di tutti li suoi cari figli, levando li occhi al cielo, stava ad aspettar il suo Dio, conforme alla promessa, ed ellevati in altissima contemplazione oravano a Dio, invittandolo che ormai si lassiasse vedere. (Selva, 281)
La gioia di Fra Tommaso è ormai palpabile, dopo l’atroce sofferenza patita nella sua stessa carne su quell’altro monte, il Calvario, e dopo l’aurorale periodo della periodica comparsa di Cristo tra i discepoli, quella presenza-assenza che li ha così resi come fanciulli. E, questa gioia, il Beato la riversa quasi come un canto sul monte benedetto che ha avuto il privilegio di ospitare l’atto capitale della Trasfigurazione.
O santo monte, io non so qual sia degno di maggior lode, o il Calvario o te, Olivetto: il Calvario mi invitta a lacrime, a gemiti, a sospiri, perché in esso fu traffitto, impiagato, crucifisso, morto il mio Signore; ma tu, o santo monte Olivetto, fusti cagione di ogni giubilo, allegrezza, contento a tutte le anime divote di Gesù, perché in te il Dio che ti creò ti volse anco privileggiare sopra ogni altro monte, perché sopra di te salì al cielo trionfante e glorioso il tuo fattore: ove da ora in poi sei onorato, riveritto da’ fedeli e sarai tenuto in soma venerazione da tutta la cristianità, e in te abiterano gran servi e serve di Dio e ivi servirano al loro Dio. E però con ragione, o sacro monte, ti poi gloriare tra tutti li monti che creò il Dio de l’universo, e per questo privileggio che ti fece Dio sarai famoso sino che durerà il mondo. (Selva, 281)
La festa barocca
Ed, ecco, inizia questa vera festa barocca, questa luminosa rappresentazione, questa manifestazione divina che migliaia d’anni avevano preparato e che si compiva a beneficio di altre migliaia d’anni.
Torniamo a la gran Madre di Dio che se ne stava in mezo de’ suoi cari figli e stavano con soma riverenza aspettando il loro maestro. Oh chi avesse veduto quei poveri apostoli che erano prencipi del mondo e che dovevano far cose tanto admirande nel mondo convertendo regni, imperi e che dovevano metter il mondo sotto sopra! E vederli ora nella cima di quel sacro monte timorosi, poveri, mal vestitti, discalzi, perseguitati, odiati dal popolo ebreo, ma preggiati da Dio tanto altamente che Dio godeva in vederse preggiate gioie! Che, avendo Dio mostrato ad essi tanti secretti, avendoli fati suoi secrettari in questo mondo e dovendosi il Signore partire con assender al cielo, volse anco farli partecipi di questa sua assensione: e però apparve a li suoi disepoli con maestà, accompagnato il nostro Dio con numero infinito di angeli e con quella moltitudine de’ santi padri che aveva liberati dal limbo. (Selva, 281-282)
Ma Fra Tommaso, nel rappresentare tanto fulgore, sceglie di porre al centro della scena non tanto il Cristo trionfante (o, almeno, non subito) ma la madre sua, non dimentico che, in cambio dei coltelli di cui ella aveva subito senza esitare e senza sottrarsi le ferite, deve ora ricevere «cento volte tanto».
Ora invito tutti li contemplativi, uomini e donne religgiose, a contemplar la assensione del nostro Dio: andiamo in spirito, anime divote, a l’Olivetto, contempliamo con li santi apostoli il nostro glorioso Dio alla presenza della sua santissima Madre e de’ suoi disepoli. Non vedi, anima divota, come, benedicendo il Signore la sua cara Madre con suoi apostoli, oh che giubilo sentivano quelle fellice anime in veder a la loro presenza il loro caro maestro accompagnato da tanta moltitudine di santi e angeli che rillucevano come tanti soli! Sentivano quelle musiche, quelli canti che tutta l’aria intonavano. Stava quella moltitudine di santi e angeli intorno al loro Dio, qualli facevano pomposa corona, cantando lodi, benedicevano il loro Signore e fattore, portavano l’insegne, i troffei, li misteri della sua santa passione. Stava il grande Dio in mezo quella moltitudine con quelle sante ferritte che a guisa di tanti soli risplendevano ne l’aria. Vedendo la Beata Vergine il suo caro figlio in tanta gloria, oh che giubilo sentiva questa sì cara Signora! Vedeva il suo sposo Gioseppe in luoco eminente, vedeva li suoi genitori Giovachino e Anna e la santa madre del gran Battista, vedeva il precursore Giovanni, vedeva la sua generazione: ognuno salutava, accarezzava la santa Vergine, la lodavano, la adornavano rallegrandosi con essa della sua dignità e grandezza. Godeva la santa Vergine, si rallegrava con ognuno della sua gloria. Era questa nostra e sì cara regina adorata da li patriarchi, da li proffetti: ognuno la mirava, la benediceva, li santi apostoli giogivano. Oh quanta allegrezza sentivano! Ove amirati, stupidi si rimiravano uno con l’altro. (Selva, 282)
Brano nel quale Fra Tommaso non tralascia di contemplare «quelle sante ferritte che a guisa di tanti soli risplendevano ne l’aria»: proprio quelle piaghe a cui sempre egli dichiarò di ispirarsi per le proprie opere e per la propria vita.
Ma è il Cristo trionfante che, qui, deve avere la sua più alta rappresentazione e l’autore confessa tutta la propria inadeguatezza di uomo, nel descrivere la gloria dei cieli, poiché, se egli la vede con gli occhi dell’anima, è comunque limitato dal suo stato corporale a forzare il proprio lessico a tale altezza. Può soltanto, con umiltà, provare a elencare queste glorie e, nelle sue parole, vi sono tutta la speranza dell’uomo Tommaso di condividerle un giorno e tutta l’umiltà necessaria per non dare ciò né per scontato, né per probabile.