Estratto dell’articolo di Fiorenza Sarzanini per il Corriere della Sera
È brutto». È il pomeriggio del 28 febbraio.Papa Francesco è ricoverato al Gemelli da 14 giorni. All’improvviso le sue condizioni si aggravano, ha un broncospasmo, fame d’aria. Chiede aiuto.
Professor Alfieri, è stato quello il momento peggiore?
«Sì, il peggiore. Per la prima volta ho visto le lacrime agli occhi ad alcune persone che stavano intorno a lui. Persone che, ho compreso in questo periodo di ricovero, gli vogliono sinceramente bene, come a un padre. Eravamo tutti consapevoli che la situazione si era ulteriormente aggravata e c’era il rischio che protesse non farcela».
E che cosa avete fatto?
«Dovevamo scegliere se fermarci e lasciarlo andare oppure forzare e tentare con tutti i farmaci e le terapie possibili, correndo l’altissimo rischio di danneggiare altri organi. E alla fine abbiamo preso questa strada».
Chi ha deciso?
«Decide sempre il Santo Padre. Lui ha delegato ogni tipo di scelta sanitaria a Massimiliano Strappetti, il suo assistente sanitario personale che conosce perfettamente le volontà del Pontefice».
E lui che cosa vi ha detto?
«Provate tutto, non molliamo. È quello che pensavamo anche tutti noi. E nessuno ha mollato».
Il giorno dopo il ritorno a Santa Marta del Papa, il professor Sergio Alfieri è di nuovo al lavoro al Gemelli. Coordinatore dell’équipe medica che ha curato il Pontefice, in questi 38 giorni di degenza gli è stato sempre accanto occupandosi anche delle comunicazioni tra l’interno e l’esterno. «Un lavoro di squadra con molti miei colleghi, questo ci tengo a dirlo e sottolinearlo».
Papa Francesco ha capito che rischiava di morire?
«Sì, anche perché è stato sempre vigile. Anche quando le sue condizioni si sono aggravate era pienamente cosciente. Quella sera è stata terribile, sapeva, come noi, che poteva non superare la notte. Abbiamo visto l’uomo che soffriva. Lui però sin dal primo giorno ci ha chiesto di dirgli la verità e ha voluto che raccontassimo la verità sulle sue condizioni».
Per questo i bollettini erano così dettagliati?
«Noi comunicavamo ai segretari la parte medica e loro aggiungevano le altre informazioni che poi il Papa approvava, nulla è mai stato modificato oppure omesso. Lui ha persone che ormai sono come familiari, stanno con lui sempre».
Quando ha capito che la prima crisi era superata?
«Per giorni abbiamo rischiato danni ai reni e al midollo ma siamo andati avanti, poi l’organismo ha risposto alle cure e l’infezione polmonare si è attenuata».
C’è stata però un’altra crisi.
«Stavamo uscendo dal periodo più duro, mentre mangiava papa Francesco ha avuto un rigurgito e ha inalato. È stato il secondo momento davvero critico perché in questi casi — se non prontamente soccorsi — si rischia la morte improvvisa oltre a complicazioni ai polmoni che erano già gli organi più compromessi. È stato terribile, abbiamo pensato davvero di non farcela».
Lui lo sapeva?
«Sì, ce lo ha detto. Si è sempre reso conto di tutto ma credo che la sua consapevolezza sia stato anche il motivo che invece lo ha tenuto in vita».
Che vuol dire?
«In passato, quando abbiamo parlato gli ho chiesto come fa a tenere questo ritmo e lui mi ha sempre risposto: “Ho metodo e regola”. Al di là di un cuore molto forte, ha risorse incredibili. Penso che a questo abbia contribuito anche il fatto che tutto il mondo pregava per lui».
Lo dice da credente?
«Esiste una pubblicazione scientifica secondo la quale le preghiere danno forza al malato, in questo caso tutto il mondo si è messo a pregare. Io posso dire che per due volte la situazione era persa e poi è avvenuto come un miracolo. Certo, lui è stato un paziente molto collaborativo. Si è sottoposto a tutte le terapie senza mai lamentarsi».
Torniamo al 14 febbraio. Come si è convinto a ricoverarsi?
«Stava male da giorni, però resisteva perché probabilmente voleva rispettare gli impegni del Giubileo. Quando ha cominciato a respirare sempre più faticosamente ha capito che non poteva più aspettare. È arrivato al Gemelli tanto sofferente, ma forse anche un po’ contrariato. In poche ore però ha riacquistato il buon umore».
E una mattina lei l’ha salutato con un buongiorno Santo Padre, lui le ha risposto buongiorno Santo Figlio.
«È successo ed era il suo umorismo, ma soprattutto la dimostrazione del suo animo umano. Lo dice spesso: “Sono ancora vivo” e subito aggiunge: “Non si dimentichi di vivere e mantenere il buon umore”. Lui ha il fisico affaticato, ma la testa è quella di un cinquantenne. L’ha dimostrato anche nell’ultima settimana di degenza».
Che cosa è successo?
«Appena ha cominciato a sentirsi meglio ha chiesto di andare in giro per il reparto. Gli abbiamo chiesto se voleva che chiudessimo le stanze dei degenti ma lui al contrario ha cercato lo sguardo degli altri pazienti. Si è mosso con la carrozzina, un giorno è uscito dalla stanza cinque volte, forse anche di più. E poi c’è stata la sera della pizza».
In che senso?
«Ha dato i soldi a uno dei collaboratori e ha offerto la pizza a chi lo aveva assistito quel giorno. È stato un miglioramento continuo e ho capito che aveva deciso di tornare a Santa Marta quando, una mattina, mi ha detto: “Sono ancora vivo, quando torniamo a casa?”. Il giorno dopo si è affacciato alla finestra, ha cercato il microfono e si è rivolto alla signora con i fiori gialli. A me è sembrato un segnale chiaro per dire sono tornato e sono nel pieno delle mie facoltà».
Il Papa sapeva che molti credevano fosse morto?
«Sì, è sempre stato informato di quello che accadeva e ha sempre reagito con la solita ironia».
C’è una sensazione che ricorda in particolare?
«Quando — nel periodo più difficile — mi stringeva la mano per qualche minuto come a cercare conforto».
Voi avete prescritto due mesi di convalescenza «protetta», vuol dire che il pericolo non è passato?
«Sicuramente in questa fase ha delle prescrizioni che dovrebbe osservare, come evitare contatti con gruppi di persone o con i bambini che possono essere veicolo di nuove infezioni. Quando è andato via ci siamo parlati e promessi di non sprecare la fatica fatta. Però lui è il Papa, non siamo noi a poter dettare i comportamenti».
C’è un momento che l’ha colpita più di altri?
«Quando l’ho visto uscire dalla stanza al decimo piano del Gemelli vestito di bianco. È l’emozione di vedere l’uomo tornato a essere Papa».