Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura del frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento, Tommaso da Olera, proclamato beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni del mese di gennaio
Le invettive contro Erode
Fedeltà alla propria fonte, si direbbe, dunque: ai detti del Signore di Matteo (Luca parla dei pastori ma non della visita dei re). D’altra parte, però, il testo dell’Evangelista non specifica, come invece fa il nostro Tommaso, il numero di questi Magi e, dunque, l’autore si affida invece, in questo caso, alla tradizione che si è basata principalmente sui doni, l’oro, l’incenso e la mirra, per altro ampiamente simbolici, per immaginare che tre doni corrispondano a tre donatori, appoggiandosi comunque al Salmo 72,10, citato in modo esplicito da Fra Tommaso: «I re di Tarsis e delle isole portino tributi, | i re di Saba e di Seba offrano doni». Dunque, tre, appunto.
Vangelo dell’infanzia
I vangeli apocrifi sono assai più ricchi di notizie a proposito dei Magi, a testimonianza dell’accumulo creato dalla tradizione. In particolare, il cosiddetto Vangelo dell’infanzia armeno recita: «Il primo, Melkon, regnava sui persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli arabi» (V,9). Difficile far coincidere le località del Salmo con quelle del Vangelo dell’infanzia armeno: mentre «il paese degli arabi» potrebbe essere Saba, già Seba sfugge al paragone, mentre Tarsis è citata in Gn 1,3: «Giona si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore. Scese a Giaffa, dove trovò una nave diretta a Tarsis. Pagato il prezzo del trasporto, s’imbarcò con loro per Tarsis, lontano dal Signore». Se Tarsis è una località dello Sri Lanka, Balthasar può essere un sovrano indiano.
Fra Tommaso contro Erode
Al contrario, la fedeltà al testo del Vangelo di Matteo spinge Fra Tommaso a quella gioia fanciullesca con cui descrive ampiamente lo smacco subito da Erode che, credendo di sentirsi riferire dai Magi il luogo in cui sorprendere e uccidere il nuovo Re dei Giudei, non può, «o povero infelice, […] prevalere con tuoi inganni alla sapienza de Dio» (Selva, 159), poiché proprio la stella, cometa o meno, guida i re asiatici lungo una strada diversa, e lui stesso, Erode, per intervento divino, non ha neppure la banale ispirazione di inviare dei «cortigiani fidati» al seguito dei Magi, in modo da avere subito l’informazione tanto desiderata! Particolarmente accanito è Fra Tommaso contro Erode, certo non senza ragione, ma, mentre in Mt 2,3, l’Evangelista riferisce, impassibile, che «il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme», la fiamma del nostro Tommaso non può non ardere più alta e più infuocata.
La cecità del popolo
O cecità, o ignoranza di Erode e de’ dottori e de tutto il popolo! In cambio di rallegrarsi in sentire che era nato il Messia e vero re, si contristano! Erode non era vero re de’ Giudei, ma re forestiero: tegniva il regno tirannicamente ed era uomo ambizioso e crudele. O poveri rabbini, non avevate studiato le profezie? […] O infelici ciechi lontani dal vero bene […] O popolo ingrato e sconoscente! […] O cecità non già mai veduta! (Selva, 158). C’è, qui, tutto quanto comparirà, poi, nella passione di Cristo: il potere politico corrotto, la colpevole cecità del popolo, aggravata, là, dalla volubilità. È questo un segno non trascurabile: già prima della nascita, Gesù, ancora nel ventre di Maria, era stato rifiutato dal potere economico (gli alberghi); ora, a pochi giorni di distanza, l’ombra della morte corporale già aleggia su di lui, come a definirne il destino e a confermarne il carattere di agnello sacrificale che cerca di riscattare non soltanto i giusti (pastori, popoli lontani dal vero Dio ma sempre alle vedette, per avvistarne un segno, per cercarlo, ansiosi di riconoscerlo) ma anche, persino e soprattutto il «popolo ingrato e sconoscente». Altrove, Fra Tommaso (lo vedremo) afferma che il più grande dolore di Cristo, durante la passione, sarà quello di sapere che alcuni degli uomini per i quali starà versando il suo sangue saranno ugualmente dannati, poiché nemmeno quell’estremo sacrificio si mostrerà sufficiente a colpire le loro coscienze e a far mutare vita.
Scala di perfezione
Le invettive contro Erode, quindi, non sono soltanto il frutto dell’indignazione di un animo semplice, troppo calato nel suo stesso racconto, ma la riflessione profonda sul perdurare del male nel mondo, e sulla missione salvifica di Cristo che, però, in omaggio al libero arbitrio, non «costringe» gli uomini a salvarsi (benché lo possa, essendo Onnipotente), lasciando, certo, a loro la dignità, ma anche e soprattutto quella necessità, per giungere a lui, di perfezionamento interiore, difficile e lungo, ma ineludibile, che Tommaso esplorerà con metodo sistematico ma soprattutto inflessibile nella sua Scala di perfezione. Ed è anche, perché no?, una sottolineatura polemica nei confronti di Lutero e della sua predestinazione. E tuttavia la scarsa preparazione letteraria (ma su ciò torneremo in un’altra riflessione di questo libro) dell’antico pastore di pecore, analfabeta fino a diciotto anni (eppure, in seguito, consigliere assai ascoltato di personalità di altissimo livello, fino all’imperatore Ferdinando II), lo porta, a volte, a svelare un’ingenuità di fondo a cui, se qui si può dare ancora l’aggettivo di fanciullesca, è possibile farlo tuttavia soltanto manifestando insieme un profondo rispetto e, se non si rischiasse l’impudenza, una inevitabile simpatia.
La profezia di Balaam
Riferendosi, ad esempio, ai Magi, sostiene che questi aspettassero con impazienza un segno (una stella a oriente, appunto) della venuta del Messia e re del popolo ebreo. La loro attesa, precisa il nostro Tommaso, era basata sulla profezia di Balaam [«una stella spunta da Giacobbe | e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24,17)], ma, certo, fa tenerezza la precisazione che «frequentemente miravano il cielo per vedere si compariva questa stella, e anche tenevano guardie a ciò, si fusse comparso la stella, ne dessero aviso alli principi» (Selva, 156; il corsivo è nostro), quasi che questa attesa fosse durata qualche anno, tanto da giustificare delle guardie appositamente previste, e non secoli…