Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Pane e sangue
Siamo al momento che tutto precede e tutto informa di significato. Il Salvatore raduna i suoi discepoli.
Fece un solenne banchetto alli suoi apostoli: e fu un convito tanto suntuoso che con verità si può gloriare di esser stato il più famoso e il più ricco di quanti già mai fussero stati al mondo de qual si voglia re o principe. (Selva, 202)
Subito, com’è prevedibile, occorre andar per metafora e interpretare tale presunta ricchezza in modo, appunto, del tutto simbolico, la ricchezza consistendo nelle immense conseguenze che tale riunione avrebbe avuto sul futuro dell’umanità e non certo nella sontuosità dell’apparato esterno.
Del resto, i quattro Vangeli concedono ben poco all’apparenza esteriore di questa cena ultima, quanto fondamentale:
«Venuta la sera, si mise a tavola con i Dodici» (Mt 26,20).
«Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici» (Mc 14,17).
«Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui» (Lc 22,14).
«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Durante la cena […]» (Gv 13,1-2).
La versione di Giovanni
È chiaro che, assetato com’è di dettagli, Fra Tommaso si appoggi alla versione di Giovanni. Fa infatti precedere il passo già riferito da particolari che a essa rimandano.
Vedendo che era venuto l’ora di andar al Padre eterno, tutto angustiato e dolente per la passione e dovendosi partire dalli suoi cari figlioli, qualli tanto amava che non aveva altre delizie, e dovendo andare alla morte, avendo ammaestrato li apostoli avanti che se partisse. (Selva, 202)
Tuttavia, il beato Tommaso ritorna subito sulla descrizione dell’ultima cena, in quanto vuole avere la certezza che il suo lettore, benché chiaramente non possa essere chiunque ma persona già preparata, intenda bene quanto metaforica fosse la sua descrizione precedente.
Vale forse la pena, prima di continuare, rilevare come l’analfabetismo, nell’Europa cattolica e in Italia, in particolare, fosse elevatissimo, al tempo di Fra Tommaso. Mentre l’insistenza di Lutero sulla necessità che ogni fedele leggesse e interpretasse personalmente la Bibbia aveva prodotto una crescita rapida del numero degli alfabetizzati, il Concilio di Trento, nel 1546, aveva proibito invece le versioni del testo sacro nelle lingue volgari, accettando come autentica la sola Vulgata, la traduzione dall’ebraico di san Gerolamo, notoriamente scritta in latino. La riduzione del commento della Bibbia al solo momento della Messa e la difficoltà aggiuntiva della lingua latina scoraggiavano, dunque, nelle masse qualsiasi desiderio di accedere ai testi scritti e, indirettamente, all’alfabetizzazione. Ciò deve essere tenuto presente sempre, nell’accostarsi all’opera di Fra Tommaso, diretta, com’era, evidentemente soltanto ai ceti alti e altissimi.
L’ultima cena
Ritorniamo all’ultima cena.
Ora, o anima devota, debbi contemplare questa ultima cena del tuo inamorato Cristo, il qualle ti preparò un cibo così prezioso che contien in sé ogni delettamento, tanto saporoso e gustevole che già mai al mondo non fu trovato un tale. O beato cibo, o beati apostoli! Poiché meritasti che Iddio delli angeli vi aministrasse un così caro cibo, impastato dal Spirito Santo nel ventre di Maria, cotto, arrostito e preparato da l’instesse mane del figliolo de Dio, cibo di carità e di amore, un cibo che l’instessi angeli del cielo con ragione possiano invidiare a noi altri poveri mortali, a’ quali è concesso mangiar questo cibo. (Selva, 202-203)
È un curioso impasto di alta dichiarazione di fede e di lessico alquanto infelice («cotto, arrostito»), come ormai abbiamo imparato a ritrovare in Fra Tommaso. Il momento culminante, quello dell’istituzione dell’Eucaristia, ha invece una descrizione senza cedimenti e che, tuttavia, privilegia il simbolo del pane su quello del vino.
E volendo il nostro Cristo dar a mangiare il suo santissimo corpo, divinità e umanità insieme, non tanto per cibar le anime nostre quanto per star con noi sino alle fine del mondo, e però instituì il santissimo sacramento de l’eucaristia: pigliando nelle sue sante mani il pane e benedicendo, lo consecrò, trasformando quel pane nel suo instesso corpo e sangue. Ove non essendo più pane, diventò vero e reale corpo e sangue, anima e divinità de Cristo, quell’instesso che partorì Cristo Maria Vergine, quell’instesso che aveva creato il cielo e la terra e tutte le cose; e rompendo questo pane in pezzi, lo diede a’ suo’ apostoli con le sue proprie mane communicandoli. (Selva, 209-210).