Esiste un aggettivo, nel Nord-est dell’Italia (ch’è la mia piccola Betlemme) – a fortissima trazione identitaria: “foresto”. E’ la versione veneta di “forestiero”, aggettivo che indica uno che proviene da un’altra nazione, da un’altra regione o, semplicemente, dal paese vicino al nostro: non è questione di km, ma di sentirlo più o meno lontano. Diverso, soprattutto. Non gode, insomma, d’una accezione felice quest’aggettivazione: pur gente dal cuore d’oro, fatichiamo ad accettare che la bellezza, spesso, attraversi terre che non siano le nostre. Anche “paròn” è termine autenticamente veneto. Se collegato al “foresto”, partorisce uno dei pensieri più identitari della terra veneta: “Non siamo più paròni neanche a casa nostra” (“Non siamo più padroni neanche a casa nostra”) diciamo per difenderci da un mondo in cui il miscuglio di pelli, lingue, sangui è la sua identità feriale.
Schio (VI) è una città vicentina, profondamente veneta. Nel 1900, a Schio, visse una donna “foresta”, simpaticamente ribattezzata “la Madre moretta”: suor Giuseppina Bakhita. In virtù della sua storia – custodita nelle oltre cento cicatrici che portava nel suo corpo – qualcuno poteva dire di lei ch’era stata sfortunata a vivere così: “poarèta”, si dice in veneto. Lei, donna fino in fondo, raddrizzò quel concetto e lo fece diventare l’aggettivo qualificativo per narrare la sua fortuna al mondo: «Poareta mi? Mi no son poareta perchè son del Paròn e nela So Casa: quei che non xè del Paròn i xè poareti» (“Poveretta io? Io non sono poveretta perchè sono del Signore e nella Sua Casa: quelli che non sono del Signore son poveretti”) diceva. Usò due tra le parole più in voga nel mio Veneto – “paròn” e “poareta” – per dipingere la sua fortuna: l’essere stata protagonista di una storia così infame agli occhi del mondo da diventare scia luminosa agli occhi di Cristo.
Venticinque anni fa, il 1 ottobre 2000, Giovanni Paolo II la dichiarò santa: Santa Giuseppina Maria Bakhita. La “poareta” è diventata santa. Della serie che non tutto il male viene per nuocere, anche se all’inizio fa male il male. Tanto.

Autore: Don Marco Pozza
Marco Pozza (Calvene, 21 dicembre 1979) è uno straccio di prete al quale Dio si intestardisce ad accreditare simpatia, usando un’inspiegabile misericordia. Sacerdote e scrittore, è il parroco del carcere Due Palazzi di Padova. Presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma ha conseguito il dottorato in Teologia Fondamentale con una tesi su Cittadella, unica opera uscita postuma dello scrittore-aviatore francese Antoine de Saint-Exupèry. Il motivo? Era infastidito assai dal fatto che il mondo intero conoscesse Il Piccolo Principe ma quasi nessuno conoscesse chi fosse il suo papà letterario. Più le infinite cose belle che aveva scritto oltre a quella sua favola divenuta nel tempo gigantesca. Immortale. La sua passione è quella di provare a contaminare mondi tra loro, in apparenza, ben differenti: a volte riuscendoci, a volte meno. In ogni caso gli rimane addosso la bellezza di averci comunque provato: come nella primavera del 2020 quando, assieme alla comunità del suo carcere, ha ideato e scritto i testi della famosa Via Crucis 2020 celebrata in una Piazza san Pietro deserta a causa della pandemia. Per Rai1 conduce dei cicli di puntate de Le ragioni della speranza, la rubrica settimanale del programma A Sua immagine. È autore e conduttore di programmi televisivi di approfondimento culturale e religioso: Padre Nostro (Tv2000, 2017), Ave Maria (Tv2000, 2018), Io credo (Tv2000, 2020), Dei vizi e delle virtù (Discovery Channel, 2021) che hanno avuto la partecipazione fissa di Papa Francesco e dai quali sono nati altrettanti bestseller (usciti con Rizzoli) tradotti in tutto il mondo. Nell’autunno 2022 scrive e conduce Il Discorso della montagna (Canale5, 2022). Appassionato di sport e giornalismo, nel tempo libero che gli rimane ha già iniziato ad abbozzare la sua prima enciclica, qualora gli toccasse la dura avventura d’essere eletto Papa. L’incipit è già stato scritto: «Ho odiato ogni minuto di allenamento ma mi dicevo: non rinunciare. Soffri ora e vivi il resto della vita da campione» (M.C.Clay). Non è il miglior uomo del mondo: non pretende nemmeno di diventarlo, tra l’altro. Gli basta, al tramonto di ogni giorno, avere fatto di tutto per essere il migliore uomo possibile.