Il commento al Vangelo di Don Giulio Dellavite.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi». Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
Il commento
Cinque lettere che possono essere lette con 2 accenti: A.M.A.T.I. Viene spontaneo leggere “amÀti”. Sentirsi amati è il desiderio più profondo, è l’esperienza più arricchente. Anche gli altri e pure Dio. vogliono sentirsi amati da noi: è un’esigenza a cui cerchiamo di rispondere in modi diversi. Ci viene però più difficile spostare l’accento e dirci: “Àmati!”. È un imperativo che mettiamo da parte troppo spesso, eppure la logica di Gesù nel Vangelo pone qui l’accento: ama Dio e gli altri “come” te stesso, nella misura in cui ami te stesso. Non dopo te stesso, se resta qualcosa, se c’è tempo. E fallo con tutto te stesso: cuore, anima, mente, forza. Un tale decise di fare una grigliata tra amici nel proprio cortile. Quando fu pronta la moglie uscì a gridare: “Al fuoco! Aiuto!”.
Alcuni corsero al sentire le urla e vedendo il fumo. Altri sostennero di non aver udito nulla o notato niente. Quelli che arrivarono trovarono un banchetto strepitoso e la paura si trasformò in sorriso, condivisione e festa. Accogliendo inaspettati ospiti, il fratello stranito domandò: “Ma chi hai invitato? Dove sono i soliti vicini?”. Rispose: “Questi sono veri amici: sono arrivati solo per il nostro bene, senza aspettarsi nulla”. Quella donna ha voluto vivere appieno il suo “Àmati!” scoprendo chi erano le persone da cui erano davvero “amÀti”. Il mio vecchio parroco diceva che in paradiso ci stupiremo di tre cose: innanzitutto di esserci noi, poi di incontrare chi non ci saremmo mai aspettati e infine di non vederci chi eravamo sicuri di trovarci.
L’amore non esclude lacrime e fatiche, errori e sbagli, cicatrici e lividi, ma li considera come lezioni di vita in cui i criteri interpretativi sono cuore, anima, mente, forza. In questi giorni in cui ricordiamo i nostri morti pensiamo al loro cuore e a quanto hanno fatto per noi, alla loro anima cioè ai loro valori e alle loro passioni, alla loro mente quindi ai loro insegnamenti e infine alla loro forza data a noi in eredità preziosa. Va sempre più di moda dire a un defunto “la terra ti sia lieve”, come saluto laico e moderno opposto al “riposi in pace”. È invece un antico augurio religioso latino “sit tibi terra levis”. Al momento della sepoltura, il rumore della terra sulla bara e il vederla sotterrarsi generava un senso di angoscia. Allora si augurava al defunto la “lievità” cioè che la sua anima non fosse sotto le zolle, bloccata o imprigionata negli inferi, ma libera e liberata, viva e presente, amata e amante.
Quanto non mi piace l’espressione “ovunque tu sia”: i morti non sono persi o dispersi, non sono scappati o rapiti. Non sono più dove erano, ma sono ovunque noi siamo. Se amo, sento che ci sei anche se lontano e non ti vedo. I nostri morti ci sussurrano oggi: Àmati! Vi sentirere amÀti! Quando uno nasce è l’unico che piange e tutti sorridono. Quando uno muore è l’unico che sorride e tutti piangono. Capita però solo a coloro che con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente, con tutta la forza si sentono amÀti dagli altri e da Dio, perché a stessi si sono detti: Àmati! Di un uomo che ha vissuto con uno stile raffinato tanto da poter stare con la testa alta e con la schiena dritta nonostante pesi e bastonate della vita si dice “era un signore”. Di una donna che ha vissuto con generosità e delicatezza, tanto da riempire di calore la casa o la società con la premura quotidiana si dice “era una signora”. È un riconoscimento che non è dato da titoli o ricchezze, ma da una coerenza fatta di valori densi e saldi. Il Signore ci vuole “signori”.
Molto più facile essere un eroe che un signore: per diventare eroe basta l’occasione di un minuto, per essere signori serve tutta una vita. Tutta, appunto. Molto più facile essere ricco che essere signore: un ricco brilla, un signore illumina. Non conta cosa si fa, cosa si ha, ma come si è. Un poeta ebreo, Marc Levy, ha scritto: “Le rughe della vecchiaia formano le più belle righe della vita, quelle sulle quali i bambini imparano a leggere i loro sogni”. Le rughe dei nostri cari sono le scie dei loro sorrisi e sono le cicatrici dei sacrifici delle loro storie. Queste rughe diventano righe su cui noi possiamo continuare a leggere i loro valori, i loro sogni, le loro passioni, ciò che hanno vissuto, creduto, sperato, donato. Queste rughe diventano le righe del “quinto vangelo” su cui possiamo continuare a scoprire la presenza di Dio. Pensiamo alla vita dei nostri morti, Santi di casa nostra. Il Signore li ha resi signori, ora tocca a noi. Questa è la loro eredità per noi: dono, compito, responsabilità.