Il commento al Vangelo della domenica di Don Giulio Dellavite. 9 luglio 2023.
Dal Vangelo secondo Matteo
Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Il commento al Vangelo
Siamo abituati ad ascoltare Gesù che parla a folle o apostoli, invece oggi intercettiamo un dialogo intimo tra figlio e padre. Importante è però notare il contesto da cui viene estrapolato. È un momento difficile. Anche lui prova la crisi: la gente dubita, molti discepoli se ne vanno delusi, i familiari vogliono farlo ragionare e i politici disinnescarlo. Non abbassa il tiro pur di piacere e di non perdere followers. Addirittura mette come condizione “un giogo” da accettare. Un’immagine che a noi dà l’idea di pesantezza e prigionia. Nell’antichità contadina aveva però una connotazione diversa, tanto da essere presa come simbolo dell’amore da cui viene “coniugi” che significa legati dallo stesso giogo (cum-iugo). I Sumeri avevano scoperto che non era solo divisione di fatica, ma col giogo l’aratro andava più in profondità e così il raccolto si moltiplicava e produceva benessere. In amore, nella fede, nella quotidianità più vai in profondità, più vinci la durezza, più vedi germogli, più raccogli frutti. Oggi per scendere dentro se stessi va di moda fare “yoga” che in lingua sanscrita è il medesimo concetto di “giogo”.
Il mite non è pacato
Curioso come tante volte andiamo a cercare chissà dove ciò che abbiamo dimenticato di avere già in casa nostra. Prendere il giogo fa diventare “miti” di cuore. Insegna Gesù. Il mite non è il pacato, il bonaccione, il gommoso, chi non si esprime, non si arrabbia mai e gli va bene tutto. “Mite” nel senso originario è il risultato del lavoro della mola: schiaccia il grano, toglie la pula, fa la farina fine e raffinata. Ma quanto bisogno c’è oggi di mitezza, finezza, raffinatezza! Quanto si vivrebbe meglio! E come cambierebbero i rapporti! Mite-fine-raffinato uno non nasce, ma lo diventa: è chi macina la vita schiacciato da crisi, fatiche, dubbi, mali, ma vede emergere l’essenziale, trovandosi più leggero, capendo ciò che è da gustare e relativizzando tutto il resto. Mite-fine-raffinato è chi ha la forza di scartare la pula: è chi sa trovare equilibrio tre gole buie e altezze luminose; è chi non si lascia prendere dai facili entusiasmi e non cade in depressione di fronte alle difficoltà; è chi si sente elastico con pochi bisogni e tanta prospettiva, mentre le persone rozze hanno tanti bisogni e poca prospettiva. Mite-fine-raffinato è chi ha la forza della gentilezza, che è cortese galanteria e pudore che si mette in questione, che è rispetto nel tatto e semplicità nello sguardo, che è chiarezza nelle idee e limpidezza nelle parole. Il contrario è fare del giogo un guinzaglio o un bastone che “soggioga” (sub-iugo), mette sotto, umilia, pretende. Mite-fine-raffinato è chi riconosce di essere fragile e delicato, tanto da custodire con attenta premura questa preziosità perché sa che si sciupa subito e basta poco per rovinarla. Eleganza è questione di personalità non di vestiti (J.P. Gautier). Mite-fine-raffinato è chi sa gustare, nonostante la fatica, la “soavità” del giogo, che “unisce” per andare in profondità, per vincere zolle dure, per investire nella novità dei germogli. Se guardare avanti ci fa paura e guardare indietro ci fa soffrire, non ci resta che guardare accanto: lì c’è chi è “legato” a noi, “cum-iugo”, proprio come chi ama, proprio come Dio.