Don Giulio Dellavite ci conduce nella catechesi. La catechesi, cioè l’insegnamento a voce dei principi della religione cristiana, non è sapere qualcosa in più, ma conoscere meglio Qualcuno. Oggi ci occupiamo del buon Samaritano.
Dal Vangelo secondo Luca
Per riflettere
La scena è la strada che scende da Gerusalemme a Gerico: già questo è un dettaglio essenziale. Dalla santa “città della pace” (così significa in ebraico Gerusalemme), alla concreta città del mercato (Gerico è un’oasi dove si fermavano le carovane dei mercanti). Giri le spalle all’ordine di Dio e scendi verso il caos dell’uomo. “Scendeva”: è il calare, l’abbassare il livello, lo stringere l’orizzonte, è lo scendere dalla spiritualità alla materialità, dall’al di là all’al di qua. È la strada della nostra vita quando, sicuri di noi stessi, crediamo di potere viaggiare da soli, presuntuosi, con quella spavalderia che non ti fa fare bene i conti e poi ti trovi a terra sfinito e pieno di lividi. Su queste curve aride arriva la provocazione di Gesù: il fulcro non è il samaritano forte, ma il bastonato livido.
La contraddizione del cuore
Prendiamo in mano oggi la contraddizione del nostro cuore, il nostro incappare ogni volta negli stessi “briganti”, negli stessi errori che mi lasciano mezzo morto, ferito sul ciglio della strada della quotidianità, sotto gli occhi dei passanti ben-pensanti e ben-credenti. Però non stanchiamoci di stare in attesa di Qualcuno che non si giri dall’altra parte. Vede e si accorge solo chi sperimenta la stessa fatica. A fare il bene, in questa pagina del Vangelo di Luca, non è chi ci si aspetta (il “prete” e il Levita cioè il laico impegnato o il politico vanno oltre), ma un extra-comunitario, un non-credente, uno che passa (il termine “samaritano” era usato come “bastardo”). A Gesù piace molto provocare quelli che si ritengono apposto con questa categoria dei Samaritani (come la Samaritana al pozzo). È come se oggi usasse come modello il profugo.
“La prova che una persona ha incontrato Dio non è nel modo in cui parla di Dio, ma nel modo con cui guarda alle cose del mondo” (Simon Weil).
I “samaritani”
Spesso non ci accorgiamo che Dio non fa mai mancare nella nostra vita dei “samaritani” che ci vengono incontro. Quante volte non abbiamo permesso a Dio di avvicinarci, solo perché pensavamo che l’aiuto ci arrivasse da altri, da chi noi volevamo. Nella mia vita ho avuto tanto bene da chi non mi aspettavo, da chi non avevo considerato o anche giudicato male. Possiamo però renderci conto di quante volte siamo stati noi stessi “briganti” spogliando gli altri della loro dignità e del loro onore, o quante volte, peggio, siamo passati oltre noi stessi, facendo finta di non vedere la nostra debolezza, per non guardare in faccia alle nostre ferite. Quante volte non siamo capaci di amare gli altri perché non amiamo davvero noi stessi per primi. Non mettiamoci sempre e solo nella posizione sana e supponente di chi deve dare, deve aiutare. Anche noi ogni tanto siamo quelli a terra. Misericordia è “miseria-cuor-dare”: mettere il cuore al posto della miseria, colmare le mancanze con il cuore.
I dieci comandamenti
In questa pagina di Vangelo Gesù riscrive i 10 comandamenti come proposta per ogni uomo, credente o no, perché l’uomo sia uomo, la vita sia amica, la terra sia abitata da “prossimi”, non da avversari. Un Samaritano, invece. “Invece” determina la direzione di Dio, al di là di tutto.
1. Lo vide. Luca usa il verbo tipico di colui che vede l’uomo come immagine di Dio. Il samaritano assume il modo stesso di vedere di Gesù. “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Gesù Cristo”.
2. Ne ebbe compassione. Il verbo non esprime semplicemente il sentimento che si può provare incontrando una persona che soffre. Il samaritano assume le stesse viscere di misericordia di Dio, quando per bocca del profeta Osea, dice: «Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione» (11,8). Non basta passare dalla testa (mi accorgo di un problema), al cuore (lo faccio per bontà). C’è un ulteriore passo: dalla testa, al cuore, alla pancia. Noi facciamo tante cose “di pancia”, spesso però legate al male, alla rabbia. È il lasciarmi coinvolgere dal bene.
3. Gli si fece vicino. Questo “com-patire” non lascia inerte. È patire-insieme. “Patos” in greco è generico, non è solo sofferenza, ma è sentimento. È condividere il bisogno ma anche la gioia. L’apice di questo è la donazione reciproca del matrimonio: “io accolgo te nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, nella buona e nella cattiva sorte”. Il prossimo non è quello dopo, “avanti il prossimo”. Il prossimo non è solo chi è vicino a me. Il prossimo sono innanzitutto io che mi accorgo e mi faccio vicino. Gli altri “passano” vicini. Il Samaritano sceglie e gli “va” vicino.
4. Gli fasciò le ferite. È la carità intelligente. Diceva Papa Giovanni non basta fare il bene, ma bisogna farlo bene. Il vero contrario dell’amore non è l’odio, è l’indifferenza. La minaccia più grande della fede non è il peccato, ma la mediocrità. È quel “passarono oltre” che denuncia 3 situazioni quanto mai attuali nella nostra vita: la fretta (si ha sempre tanto da fare), la paura (non ci si vuole compromettere), l’alibi (riusciamo sempre a trovare scuse e giustificazioni).
5. Versandovi olio e vino. Usa quello che era oggetto del suo guadagno per vivere. Non lo vende, lo dona gratuitamente. È la densità che va nel profondo (l’olio) e il frizzante anche dello stare bene (il vino). È la fatica dell’essere spremuti (l’olio) e la bellezza del condividere e brindare (il vino). Dice la liturgia “l’olio della consolazione e il vino della speranza”. Sono i due poli della vita, il bello e il brutto, il bene e il male, la gioia e il dolore.
6. Poi lo caricò sulla sua cavalcatura. Gli offre anche la sua cavalcatura: lui scende per far salire l’altro. Come Giovanni Battista dice verso Gesù: “Che io diminuisca perché lui cresca”. È la logica dell’amore. Nessuno può guardare dall’alto in basso nessuno se non nel momento in cui lo aiuta a rialzarsi. È l’umiltà. “Il tuo prossimo è chi ha avuto compassione di te”. Allora ricordati di amare i tuoi samaritani, quelli che ti hanno salvato, hanno versato olio e vino sulle tue ferite, e riversato affetto in cuore. Non dimenticare chi ti ha soccorso e ha pagato per te. Li devi amare, con gioia, con festa, con gratitudine. E poi da loro imparare. Va e anche tu fa lo stesso.
7. Lo portò in un albergo. Siamo solo uomini ma non siamo mai uomini soli. L’albergo è l’immagine della comunità. Non posso fare tutto io, ma io posso fare qualcosa. Il mio poco diventa tanto se entra in sintonia con il poco di altri. Ma serve coesione, accordo, intesa, dialogo.
8. Si prese cura di lui. Il verbo del profondo affetto. Ci sono anche le ferite interiori che occorre sanare. È l’imparare a riconoscere le ferite interiori, con sguardo attento e cuore grande. Quante lacrime si nascondono dietro a grandi sorrisi. Quanti capricci invece con lacrime di coccodrillo.
9. Tirò fuori due denari e li diede all’albergatore. È il decidere cosa ci metto di mio: tempo, energie, soldi. Non faccio solo per lui perché sono bravo, ma mi lascio contagiare, mi lascio prendere, mi ci metto in gioco.
10. Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno. Il contagio della speranza. In bene fa bene e porta bene. L’albergatore si fida e si affida al Samaritano. Viene contagiato e rischia: “te lo darò al mio ritorno”. Non era tenuto. Non basta essere credenti, ma è necessario essere credibili. “Sapranno che siete miei testimoni da come vi amerete tra di voi”.