La storia che vi sto per raccontare tocca un tasto dolente. Un doppio tasto dolente: la bestemmia, più la caccia. È la storia di Alfonso: nome di fantasia, altrimenti al mio paese, appena leggeranno questo post, inizieranno a sfotterlo alla grandissima. La caccia, dalle mie parti, è una sorta di religione laica: tanto quanto il calcio, la briscola, il prosecco. Alfonso è appassionatissimo di caccia: “Vive per la caccia!” dice di lui la moglie, allargando sconsolata le braccia. Il fucile, il roccolo, il cane sono per lui gli arnesi della sua liturgia: come per me il calice, la patena e il corporale. Quando apre la stagione della caccia, in paese si celebra una santa messa ad personam: la messa di “apertura della caccia” si legge negli avvisi affissi sulla bacheca venatoria. Si presentano i cacciatori in massa, indossano le loro vesti liturgiche: sull’altare poggiano un fucile come fosse un dono da presentare all’offertorio. Poi, quando il prete alza l’Ostia, puff! un colpo secco di fucile al posto del suono del campanello. Anche chi scrive, per anni, ha celebrato questa messa: se tu vuoi capire l’animo della gente di casa mia, non puoi rifiutarti di fare i conti con la caccia. Anche la politica lo sa benissimo: il “portafoglio di voti dei cacciatori” è ambito come pochi altri. I cacciatori saranno fedeli nelle urne se tu gli sarai fedele nelle promesse elettorali di caccia. La caccia. E la bestemmia: per un’ignobile fama veneta, non c’è bisogno di preludi su questo tema. La bestemmia è un’infame grammatica dalle nostre parti. Infame quanto la merda addosso al nome di tua madre.
Sabato scorso, all’alba, stavo facendo un giro tra i boschi del paese: il silenzio che si respirava era il silenzio delle grandi occasioni. Un silenzio mistico, naturale, religioso: così denso da lasciare la voce al rumore delle foglie che cadevano, al gorgoglìo del ruscello, al rumore delle gocce di pioggia sugli alberi. Nemmeno in chiesa, con quel ronzìo perpetuo di sottofondo che c’è sempre, aleggia un silenzio così. Avvolto in questo inaspettato silenzio – una sorta di goduria della massima specie – meditavo sul Vangelo della domenica: «Fate attenzione, vegliate, perchè non sapete quando è il momento» (cfr Mc 13,33-37). Quando, all’improvviso, si è innalzata al cielo una bestemmia da togliere il fiato. “Fotonica”, come dicono i bambini per definire qualcosa di stupefacente: non avevo mai sentito un’espressione di così feroce portata, di simile fantasia. Svolto la curva e mi trovo davanti il poeta della poesia, con la testa tra le mani e il fucile per terra: “Porcavacca, Alfonso: tanto di cappello per la fantasia. Ma esiste davvero questo animale!” gli dico. Non avevo mai udito finora – e sì che sono veneto – un appellativo animalesco così inverosimile abbinato al nome di Dio (ve lo risparmio). “Bravo, ciò: gli hai fatto i complimenti invece che rimproverarlo del fatto ch’è moralmente peccaminoso nominare il nome di Dio invano!” mi dirà qualcuno. Certamente, perchè se tu rimproveri un veneto che bestemmia, lui ti risponderà con tre bestemmie. Se tu, invece, lo cogli un attimino di sorpresa, rischi di vedertelo arrossire all’improvviso. Come Alfonso: “Vaccaboia, don: mi è scappata (altra bestemmia). Non c’entra niente nostrosignore, no: sono indiavolato nero con me. Sono un mona, questo è!” mi dice auto confessandosi senza la minima richiesta da parte mia. E mi racconta il problema che ha generato una simile bestemmia. C’era l’ultimo capriolo vivo da ammazzare: hanno aperto una scommessa tra amici per vedere chi sarebbe riuscito a fotterlo. Lui, da giorni, si era appostato, lo studiava, lo sentiva, lo fiutava, l’aveva udito saltellare tra le foglie. Gli aveva dato appuntamento a sabato mattina, all’alba, come nelle più belle storie d’amore: “Giuro che oggi non torno a casa senza capriolo” ha lasciato scritto alla moglie in cucina, in un post-it. Si è appostato alle quattro di mattina, ha minacciato il cane di svegliarsi al primo tocco, è stato col fucile puntato in quel punto del torrente per più di due ore. Ad aspettare l’ultimo capriolo della stagione. Poi, stanco, si è acceso una cicca: trenta secondi, una boccata e via.
Il capriolo, in quei trenta secondi, è passato nel mirino e l’ha salutato.
“Una sigaretta, (altra bestemmia): puttana di una sigaretta bastarda”. Sono scoppiato a ridergli in faccia, rischiando che mi puntasse il fucile al posto del capriolo scappato. Mi sono seduto sul sasso, vicino a lui: “Scusami ancora, non c’entra nostrosignore (altra bestemmia). È che mi viene da piangere dal nervoso: due ore che aspettavo, sapevo che sarebbe passato giusto lì. Per una sigaretta l’ho perso” finisce il suo racconto. La mattina dopo, domenica, alle sette e trentacinque Alfonso è uscito da messa. Andando in carcere, l’ho incrociato e abbiamo bevuto un caffè al bar. “Hai sentito il Vangelo di oggi, Alfonso?” gli dico. “Il prete leggeva piano, non ho capito tutto” mi risponde. D’altra parte, lui l’aveva già visto coi suoi occhi il giorno prima il Vangelo, facendolo contemplare in diretta e in viva voce anche a me: «Vegliate perchè non sapete quando è il momento». Prestate attenzione, perchè non sapete il momento esatto nel quale il capriolo transiterà sul torrente, il momento esatto nel quale Dio passerà davanti a casa tua. Ma che splendida catechesi ho ricevuto da quel cacciatore indiavolato di nome Alfonso! Dio ha parole così umili da accettare di nascondersi anche dentro alle parole vigliacche per farti assaporare la verità di parole che non passeranno mai di moda. E che, fucile alla mano, non riuscirai mai a smontare: nemmeno bestemmiandole. (Sulla strada di Emmaus).