E’ l’appuntamento per eccellenza della fede cristiana: nessun attimo batte per valore l’istante dell’Eucaristia. Lì, in quell’attimo mistico e disumano, Cristo è all’opera come non mai: scendendo nel petto della gente, lentamente li abita, ne illumina la grettezza, offre l’occasione alla necessità di farsi virtù. Nel giorno del Corpus Domini – la Solennità del Corpo e del Sangue del Signore – in qualche paese c’è ancora l’usanza di portare il Santissimo per le strade del paese e, mentre transita, la gente getta i petali di rosa. Più che usanza è annunciazione: Dio, quando gli manchi, non è di quelli che ti fa una telefonata, che ti manda un biglietto, che ti chiede di andarlo a trovare. No! Il Dio cristiano è un Dio che si fa trovare Lui sottocasa, davanti alla porta, ad un passo da te. Tempo d’aprirgli ed è dentro: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da Lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Quando, nella celebrazione dell’Eucaristia, alzo l’Ostia, quel pezzo di pane diventato Corpo di Cristo mi rimbalza due immagini. La prima è di quand’ero un bambino e, a tavola, si giocava con le molliche con mio fratello, i miei cugini. La nonna, femmina parsimoniosa, si affrettava a dichiarare illegale il nostro gioco: “Bambini – diceva senz’acidità, con delicatezza – non si gioca con il pane”. Per lei il pane era cosa sacra, da rispettare, ingiocabile. Nell’eucaristia, quando alzo quel Pane maiuscolo, sento la voce di nonna a ricordarmi: “Marco, non si gioca con il Pane”. Sento le mani tremare: “Qui c’è Dio, è vietato giocare!” mi dico. E, assieme a lei, rivedo in quegli attimi – come se mi attraversasse la strada – quel grande genio che fu Archimede. Pur allergico alla matematica e alle sue sorelle, una sua frase mi rimase marchiata a fuoco sin dal primo momento che l’udii, nel tempo delle scuole elementari: «Datemi un punto di appoggio e io vi solleverò la terra» disse ai suoi contemporanei. Nell’Ostia, quel punto d’appoggio t’appare in fronte: è punto di appoggio, anche leva, per risollevare le storie frantumatesi.
In galera, quando l’Ostia è alzata, vedo assieparsi di fronte a quel Pane la moltitudine di sguardi dei condannati. E, devotamente, mi convinco ch’è proprio in quell’attimo che avrebbe senso appendere il cartello con su scritto: “Lavori in corso”. Mai come in quell’istante appare evidente la distanza tra chi siamo e chi il nostro cuore desidererebbe noi fossimo: una sorta di “grazia della lucidità” per trasformare le deficienze della nostra virtù in occasione di grazia e di salvezza.