Di sabato figurarono tutti disoccupati: ammainate le speranze come le vele delle barche, abbassate le serrande, spente le luci: “E’ andata com’è andata: è finita (Amen)”. Videro il Divino Grappolo pigiato dai chiodi sulla Croce e s’erano convinti che fosse la morte certa dell’uva. Curioso, per chi seppe guardare nella nebbia del Golgota, il grande miracolo che avvenne col corpo del Cristo ancora caldo, pur cadavere. Forse un qualcosa di simile ad un’interpellanza si infilò nel cervello di segatura di Ponzio Pilato. “Come mai quei due, proprio ora, ci metton la faccia? Mica sono due ingenui”. I due in questione sono Giuseppe d’Arimatea più Nicodemo: due che san Giovanni, tra le righe, non ha timore nel definire pusillanimi. Giuseppe credeva in Gesù «di nascosto per paura dei Giudei». Nicodemo, invece, «era andato da lui di notte» (Gv 19 38-39). Quand’era vivo Cristo vissero nella penombra – come di chi fa quattro calcoli per vedere se gli conviene – col Cristo color vermiglio i due si costituiscono alla luce del sole, nel momento più azzardato: il carro del fallito è vuoto sul Calvario. Resero insonne Pilato, pur col cadavere tutto a penzoloni e inerme: “Speriamo d’avere risolto la questione definitivamente – pensò -. Oltre la croce non conosco altro modo per mettere a tacere questo predicatore. Questi due, per, m’impenseriscono: se son ancora qui, rischiando di brutto, è per che fiutano qualcosa. Non sono stupidi”.
I dodici apostoli sfavillavano coi pesci: ne capivano, più o meno, di pesca e lenze. Giuseppe d’Arimatea, invece, è esperto d’uva: “Si vendemmia, dopo la vendemmia si pigia l’uva, la si lasciaa fermentare, arriva il vino”. Vendemmiato s’era vendemmiato di giovedì, pigiato l’aveva pestato il venerdì, adesso era l’ora della fermentazione. Per questo, alla Madre della vittima, affittò gratuitamente la sua tomba, «che si era fatta scavare nella roccia» (Mt 27,60). Il grappolo pigiato ch’era diventato l’Amico non poteva andar a fermentare in una vasca d’acciaio qualunque: offrì alla Madonna la sua piccola botte di barrique, a mò d’amore altissimo. Tolta la Madonna e l’amico Giovanni, soltanto Giuseppe e Nicodemo si ricordarono che, per brindare con il vino novello, è necessario che si lasci fermentare il mosto. Quel sabato – per chi riuscì a non perder la fede come i discepoli amati – fu il giorno della grande fermentazione: il chicco pare marcio, l’uva pigiata che pare da gettare, l’attesa che sembra inutile. Di fermentazione e di grande fermento: nei cuori inquietudine, subbuglio, tormento e chi più ne ha più ne metta. Parve stranissimo persino alla Madonna, forse, veder sbucare dal nulla quei due amici volonterosi e azzardati. Da madre, appena ritrovato il Figlio in braccio e prima di deporlo come mosto nella botte di barrique perchè diventi vino, disse solo ciò che s’augurava in cuor suo: “Grazie, ragazzi: Lui sarà felice di sapervi qui. Non stancatevi mai di sperare e d’aspettare: il giorno più bello potrebbe essere domani”. Un buffetto sulla guancia, un ultimo segno di croce in faccia al morto: rotolarono «una gran pietra sulla porta del sepolcro» (Mt 27,60).
L’ultimo mutuo Cristo lo chiese alla Madre: dopo il puledro in prestito, la sala affittata dall’uomo con la brocca in mano, le spalle noleggiate a Simone di Cirene, il sepolcro prestato dall’amico, a sua Madre chiese in prestito il respiro, perchè la speranza del mondo non soffocasse. Mentre il Grappolo Divino nella botte di barrique fermentava, stabat mater dolorosa a credere che la speranza non era salma. Nel giorno della grande disoccupazione, fu l’unica a rimanere impegnata. Ad aspettare il mosto fattosi vino: “Aspettare è la mia occupazione – reagiva a chi credeva inutile sperare -. Non aspettare più niente è feroce”. Fu la capitana coraggiosa che non abbandonò la nave manco quando si svuotò: «Afflitto ma non scoraggito, sopra pensiero ma non sbalordito, di corsa e non in fuga, si porta dove il bisogno lo chiede» (A. Manzoni). Si direbbe che, in Maria, la speranza continuava a bollire piano piano, come l’acqua nella caffettiera.