Se il secondo elemento di emergente attualità cui questa ricerca ha finora condotto pretende, insomma, che si ricominci a trattare Dio come una persona — ma questa è anche una tessera incontrovertibile del cristianesimo in quanto religione —, ossia dandogli sinceramente del «Tu» come faceva P. Marco, è il terzo polo quello con cui il Predicatore di Aviano si distingue risolutamente dal giansenismo, ricorrendo alla teologia di cui era genuinamente figlio: la teologia francescana[1] e, in fattispecie, bonaventuriana[2]. A questo preciso livello giocano un ruolo determinante gli attributi esplicativi della divinità utilizzati nell’atto di dolore, che qui si riportano per successione: Sommo Bene (Te summum Bonum), somma Sapienza (Tu, summa Sapientia), infinitamente buono (Tibi enim, benignissime Deus), Sommo Bene (Te summum Bonum). P. Marco li utilizza solamente quando nell’atto di dolore accenna alle «cose ultime», ovverosia alla morte, al giudizio, all’inferno e alla beatitudine eterna, in un inconfutabile orizzonte di indole escatologica.
Se questo e vero, è tuttavia errato e riduttivo interpretare tale termini limitandoli alla loro eziologia francescana perché è proprio sugli «e(/sxata» che la Facoltà di Teologia di Parigi formulò una di quelle cinque proposizioni con cui Innocenzo X bandì il giansenismo dalla dottrina ortodossa della Chiesa. Mentre, infatti, contro il molinismo i giansenisti sostenevano l’elezione gratuita, contrariamente ai protestanti essi affermavano che fra elezione e dannazione non c’è alcuna simmetria, in quanto, diversamente dalla prima, la seconda non è prodotta da un atto positivo di Dio: rimangono immersi nel peccato coloro a cui Dio «semplicemente» non concede la sua grazia. E i criteri con i quali il Dio assoluto e totalmente libero sceglie i predestinati alla gloria, oppure alla dannazione, sono avvolti nel più fitto mistero. A questo riguardo la ragione umana non può non riconoscere la sua completa incompetenza, come insegnò Cartesio (date) — osserva A. Arnauld — con la tesi dell’inaccessibilità di Dio da parte di un intelletto finito.
Se vediamo giusto, a P. Marco premeva, allora, parlare di Dio in quanto «Sommo Bene», «somma Sapienza» e «infinitamente buono» proprio in un contesto escatologico non solo a causa della teologia francescana da cui proveniva ma anche con l’intento preciso di correggere l’immagine di Dio di Cornelio Giansenio e Antoine Arnauld, e sarebbe difficile dimostrare che non sia stato proprio così. La dirompente diffusione popolare dell’atto di dolore, poi, risultava il veicolo di catechesi popolare più efficace. E, infatti, l’opposizione tra le file gianseniste, come si è visto, non si fece attendere. Ci si potrebbe finalmente chiedere dove dimori il terzo elemento di attualità sopra annunciato. Evidentemente esso non si può ridurre al fatto che l’atto di dolore sia qui soltanto uno schema nel quale l’uomo «si dichiari» sinceramente peccatore a un Dio che, oltre a essere persona, è anche sommamente buono. Tutto ciò non basta e, teologicamente, significherebbe dire ancora troppo poco. Sembra, invece, che il terzo elemento di attualità corrisponda all’equilibrio ragionevole con cui rivolgersi a un Dio che è buono, ottenibile se unito assieme alla sintesi positiva delle radici emotive che l’atto di dolore perfetto compie nei riguardi dell’affettività umana[3]. Ma questo è anche un discorso di indole eminentemente morale.
È fondamentale, quindi, domandarsi, in chiusura, in quale collocazione storica si situi P. Marco sotto il profilo morale o dei sistemi che si dividevano il campo tra tuzioristi, probabilioristi e lassisti. Disatteso o bandito ogni giansenismo, che con il rigore dell’amministrazione della grazia di Dio rendeva un’ardua impresa accedere al paradiso, egli doveva certamente trovarsi più a suo agio con la Medulla Theologiae moralis del Gesuita Antonio Busembaum (1600-1668)[4], ponderato nei suoi princìpi e propenso a quel giusto mezzo di equilibrio ragionevole, che — come si è accennato — sarà poi ripreso e codificato con autorevolezza da sant’Alfonso Maria de’ Liguori nel secolo XVIII. Sotto il profilo più specifico della spiritualità, sia con l’atto di dolore perfetto, sia con il tenore delle sue prediche e della sua umanità di francescano, la teologia morale di P. Marco punta a una pratica realizzazione del bene tramite un volontarismo attivistico che raccoglie le radici emotive predisposte al bene e le orienta all’amore teologale disinteressato a Dio nella sfera della contemplazione[5].
Gettato, dalle circostanze storiche, nella mischia dell’azione, l’attualità del Servo di Dio non è assolutamente circoscrivibile soltanto al ruolo determinante che egli ebbe sotto il profilo politico — che pure gli è unanimemente riconosciuto[6] — bensì essa concerne anche quello eminentemente pastorale e, per quel tanto che può interessare, pure dogmatico. Così, è ragionevole che l’emotività credente dinanzi a un Dio, il cui nome è quello di «Sommo Bene», sia educata alla certezza teologale secondo la quale, dopo la confessione sincera — non solamente sacramentale — del proprio peccato, l’unico risultato possibile è quello della lode, della benedizione e del ringraziamento. Ma tutto ciò è proprio quello che viene insegnato nel Concilio Vaticano II.
Per una visione d’insieme
Le prospettive future che possono emergere dal probatur thesis, sopra enunciato di questo studio superano di gran lunga la determinazione relazionale evidenziata tra la teologia dell’atto di dolore perfetto e l’opposizione alle aporie del giansenismo. Quella stessa teologia, infatti, offre un positivo colpo orientativo non soltanto all’attualità celebrativa e pastorale del sacramento della riconciliazione, ma lascia pure intravedere dei risvolti catechetici ed ecclesiali assai interessanti.
Da un versante antropologico, infatti, si nota che l’esistente umano può, sia egli credente o meno, chiedere perdono se vuole a tante persone, ma soltanto nei confronti di Dio sente la necessità di farlo in maniera perfetta perché solamente verso Dio si prova un autentico e sincero atto di contrizione e di dolore. E questo anche se Dio fosse considerato alla mera stregua di un «Io» assoluto e personale coincidente con la propria coscienza.
Da un punto di vista dichiaratamente teologico, invece, il pensiero sotteso all’atto di dolore, se osservato nella sua esatta eziologia, resta insuperabile per la sua originalità. Contro il giansenismo, Marco d’Aviano ha additato nell’atto di dolore l’incredibile capacità umana di ripristinare la condizioniper la figliolanza divina, diventando, pertanto, quell’atto di dolore, un perfectus actus contritionis, di cui l’uomo rimane l’actor principalis. Non è solo la soprannaturalità della grazia, quindi, ma anche la nuova creazione quella che rende irresistibile l’uomo davanti a Dio perché a partire da Gesù Cristo anche un po’ della nostra storia è entrato a far parte della storia della salvezza stessa di Dio. Si tratta soltanto di riconoscerla di confessarla.
Risulta, dunque, solo parzialmente valida una teologia e una relativa prassi ecclesiale che siano soltanto della Parola senza possedere e attuare una confessione del peccato nella Chiesa e con la Chiesa. In questo caso è, dunque, vero l’assunto che extra «Ecclesiam nulla salus», poiché confessare il peccato senza la Chiesa significa meramente dimenticarsi che chi pecca lo fa contro Dio, ma anche contro i fratelli e le sorelle rappresentati sulla croce dalle piaghe di Gesù Cristo morto e risorto. Non è la stessa cosa inginocchiarsi dinanzi a una croce nuda senza crocifisso, oppure farlo davanti a un’altra con la rappresentazione corporea di Colui che, avvolto dalle «fiamme dell’amore divino», è la Parola stessa fattasi carne e che a ciascuno di noi può aver detto: «nemmeno io ti condanno. Va in pace e d’ora in poi non peccare più» (Gv 7,11).
[1] Ci sia consentito, per l’esemplificazione, il rimando al nostro studio: G. Pasquale, «Pater Pio – der Kapuziner mit den Wundmalen», Geist und Leben 73 (2000) 98-112.
[2] Cf
[3] E la ragione principale deve «essere ricercata nell’ambito della spiritualità sviluppata da Marco d’Aviano. La lettura dei documenti diversi fornisce l’immagine di lui come di un apostolo che ha una devozione tutta interiore e che insiste sulle attitudini del cuore dei fedeli, lasciando largo spazio all’affetto»: B. Dompnier, «L’apostolato di Marco d’Aviano», 270.
[4] Nota 28 p. 291.
[5] Anzi sotto questo preciso profilo, P. Marco supera di gran lunga la stessa teologia morale cattolica del XVIII secolo la quale, se viene considerata come aderente al sistema probabiliorista, allora nemmeno essa andava esente dal medesimo rigorismo giansenista. In questa situazione si comprende la novità morale del P. Marco d’Aviano, che si atteneva a una moderazione comprensiva della fragilità umana e, insieme, della sua attitudine a collaborare con la grazia di Dio.
[6] Merita un accenno l’interessante accostamento compiuto tra la politica imperiale dei Cappuccini e quella dei Gesuiti, fatta sulla scorta dell’analogia tra le due Scuole teologiche dei Domenicani e dei Gesuiti in merito alla dottrina della grazia e alla teologia scolastica barocca. Se queste due si opponevano in modo dirimpettaio, dinanzi alla politica imperiale i Cappuccini e i Gesuiti costituivano soltanto due «verschiedene geistige Haltungen gegenüber». «Es sind die Mitglieder zweier Orden, Jesuiten und Kapuziner, die in der Staatspolitik des 16. und 17. Jahrhunderts begegnen. Wie in den theologischen Kontroversen der “Barockscholastik” jesuitische und dominikanische Lehren miteinander konkurrierten, in der Gnadenlehre ebenso wie im Souveränitätsproblem oder in der Zinsfrage, so traten auch in den beiden Schulen der Politik, die durch Jesuiten und Kapuziner gekennzeichnet sind, einander verschiedene geistige Haltungen gegenüber. Merkwürdigerweise allerdings in einem ganz anderen Sinne, als es der theologische Antagonismus der beiden Orden vermuten ließe»: E.K. Winter, «Marco d’Aviano und der Staat», in K.J. Grauer – E.K. Winter – H.K. Zessner-Spitzenberg, ed., Marco d’Aviano Ord. M. Cap. Sein Werk und seine Zeit. Eine Festschrift zum 250. Jahrestag der Türkenbefreiung, GSUR & CO., Wien 1933, 150-171, qui 151. Si veda anche S.G. Monteduro, Marco d’Aviano, 45-54.