Era un giorno di primavera proprio di ottocento anni fa (1209) quando Francesco d’Assisi (1182-1226) si presentò a papa Innocenzo III per chiedergli il «permesso» di vivere il Vangelo. Fu quella la «grazia delle origini» francescane. Sì perché, come accadde a Francesco d’Assisi, ci si innamora davvero solo a primavera oppure in autunno. Cioè quando in quell’angolino dell’Umbria ogni colore, ogni alba e tutti i tramonti spingono a capire che si esiste nel tempo per l’eternità. E che una scelta fatta «per sempre» – alla pari di Francesco – rende davvero felici.
In quest’anno 2009, dunque, si celebra in tutto il mondo francescano l’ottavo centenario della Vita francescana e della prima Regola di San Francesco, il cosiddetto suo «proposito di vita». Con tale evento si vuole commemorare la presentazione, fatta appunto nel 1209, di un modello di esistenza evangelica pura, intuito dal Poverello di Assisi, a papa Innocenzo III per ottenere l’approvazione. Infatti, in quella che viene chiamata ufficialmente la «prima Regola» composta nel 1221, Francesco scrive nel prologo queste parole: «Questa è la vita del Vangelo di Gesù Cristo che frate Francesco chiese che dal signor Papa Innocenzo gli fosse concessa e confermata. Ed egli la concesse e la confermò a lui e ai suoi frati presenti e futuri» (Fonti Francescane n. 2, 20042, pp. 99). È possibile, tuttavia, presumere con buona probabilità che la «vita del Vangelo» che Francesco presentò a papa Innocenzo, avesse trovato ispirazione in un evento che si era verificato verosimilmente nella primavera del 1209, quando Francesco già praticava un’esistenza basata sul Nuovo Testamento, meditando quotidianamente con la Sacra Scrittura.
In quel tempo alcuni giovani di Assisi, Bernardo da Quintavalle e Pietro de’ Cattani, attratti dal suo esempio, pensarono di unirsi a lui divenendo, così, i suoi primi due discepoli. Dissero a Francesco: «D’ora in poi desideriamo vivere con te e fare ciò che tu fai. Dicci, quindi, cosa dobbiamo fare di tutto ciò che possediamo». Francesco rispose lietamente: «Andiamo presto domani mattina alla chiesa e aprendo il libro dei Vangeli chiediamo ispirazione a Gesù Cristo» (Fonti Francescane n. 2, 20042, pp. 1088-1089). Si recarono, quindi, alla chiesa di San Nicolò e, dopo una breve preghiera, aprirono tre volte il Messale che conteneva i Vangeli, chiedendo a Dio di confermare il loro progetto di vita. I testi delle Scritture che emersero in quell’occasione divennero la base della Regola di San Francesco e diedero inizio al «movimento francescano» nell’ambito della Chiesa, costituendo, così, il terreno comune e fecondo delle future varie famiglie francescane.
Il fatto, poi, che la Regola – come si leggerà in questa nuova biografia di San Francesco – sia stata approvata con una «bolla pontificia» costituisce un evento unico nel suo genere: indica, in sostanza, che la Chiesa ha reso sua l’ispirazione carismatica del Poverello di Assisi come dell’ostrica è parte costitutiva la perla preziosa in essa contenuta, a tal punto che se anche il carisma di Francesco venisse tradito dalle attuali famiglie francescane, esso rispunterebbe, per questo, come tale in un altro agglomerato ecclesiale. Mediante la Regola riconosciuta con la «bolla» dal papa, la Chiesa ha istituito come proprio il carisma di Francesco d’Assisi sino alla fine; in questo stigma ecclesiale sta la rivoluzione iniziata da San Francesco, che mai cesserà di essere tale.
La direzione del comitato scientifico del «Dizionario Bonaventuriano», un’opera monumentale costata circa dieci anni di lavoro e che ha visto la luce solo quest’anno, il coinvolgimento in prima persona nel coordinamento del dipartimento editoriale del «Movimento Francescano» e, soprattutto, il certosino lavoro di compilazione dei «365 giorni con San Francesco» (Edizioni San Paolo 2008), mi ha coscienziosamente obbligato a rimettermi direttamente in contatto con le cosiddette «Fonti Francescane», in questa occasione non soltanto con l’occhio del teologo sistematico o del filosofo teoretico, bensì con il cuore di chi, come Francesco d’Assisi, ha fatto la medesima scelta di vita, essendo anch’io prima di tutto un francescano. Dovendo rileggere pressoché riga per riga tutte le fonti della grande famiglia alla quale appartengo, percepivo sempre più infondata l’obiezione «protestante» di Paul Sabatier secondo il quale l’unico a vivere lo spirito francescano sarebbe stato soltanto lui, Francesco d’Assisi. Tale spirito mancherebbe sostanzialmente – sempre secondo il Sabatier – nei suoi frati. Si tratta, appunto, di un’obiezione del tutto «protestante» perché, per una non debole analogia, sarebbe come dire che nella Chiesa cattolica non sia affatto presente lo Spirito del suo fondatore, Gesù Cristo.
Nel rileggere le fonti, invece, ho percepito l’insostenibilità di tale obiezione – che riveste per gli addetti ai lavori i panni del «fossato di Lessing» – per il solo fatto che rivedevo, in quelle, quadri e situazioni perfettamente componibili con quanto accade negli attuali conventi dei frati francescani. E – lo si sa – contro il fatto non si contrappone argomento alcuno. Osservavo, insomma, che Francesco ha trasmesso a noi frati la miniera incorrotta dei suoi «sentimenti», quasi un autentico DNA epigenetico inserito nelle nostre arterie circa il modo di comportasi evangelicamente: strutturandosi, per esempio, con l’amore per «madonna povertà», con l’anelito quasi consanguineo di aiutare le famiglie in difficoltà, con la gara, che domina anche oggi in tutti i conventi francescani, nello sfamare letteralmente i poveri, nel totale distacco dalla moda nel vestire, dallo sfarzo delle abitazioni, dall’ansia di avere denaro contante, attraverso l’energia vitale presente in frati giovanissimi e meno giovani di andare lontano e a tutti e predicare la «buona notizia». Ma dell’autentica eredità di Francesco d’Assisi presente ancora nei conventi io oggi intravedo soprattutto due singolari peculiarità: l’amore con il quale i «frati» si amano e si perdonano, «più di quanto una mamma carnale farebbe con il suo figlio» (Fonti Francescanen. 91, 20042, p. 127) e il «grande equilibrio cattolico» con il quale essi servono Santa Madre Chiesa. A questo proposito – e proprio nella temperie ecclesiale e sociale attuale – nessuno potrebbe oggi catalogare i francescani di «sinistra» o di «destra», essendo rimasti – per così dire – gli unici, tra i movimenti cattolici, di «centro», il che significa coloro che, in ultima istanza, hanno sempre servito la Chiesa in povertà, nascondimento e umiltà.
Questa nuova biografia su San Francesco d’Assisi esibisce questa particolarità: è come se fosse narrata in prima persona dai primi tre compagni. Da questa prospettiva, la biografia non solo ricalca il solco tracciato dalla famosa «Leggenda dei tre compagni», ma intende fotografare quanto avvenne nella vita del Santo assisiense ricorrendo alla testimonianza diretta dei primi tre suoi testimoni. Leggendo questa biografia, poi, al lettore attento non sfuggiranno alcune mirate incursioni, stilate da chi tra i discepoli di Francesco vive da quasi tre decenni, soprattutto là dove si accenna, per esempio, al proposito del Poverello che tutti noi fossimo una famiglia di «frati», mentre può capitare che rientrino in famiglia alcuni «padri», alla pari di Pietro di Bernardone, il quale, invece, fu proprio (tra)lasciato da Francesco nel suo mondo. Oppure, per fare un altro esempio, si noteranno alcuni accenni alla città di Roma e al pericolo che, già al suo tempo, in essa Francesco fiutò nel poter essere – paradossalmente – il luogo più consono per mettere a repentaglio la fioritura di un carisma, nel suo stato germinale. E anche questa annotazione non è stata inalveata a caso. Oppure, l’intuizione irripetibile che ebbe Francesco nell’esercizio equilibrato dell’autorità e dell’obbedienza – nerbo quanto mai attuale la cui mancata attuazione deprime oggi intere comunità di religiose e di religiosi – allorché domandò a un «superiore» dapprima di «provare in te stesso quello che tu comandi agli altri», ovvero di attuare la regola aurea di ogni convivenza umana, come ci ha insegnato Gesù.
Scrivendo, inoltre, questa biografia – dando insomma voce ai «tre compagni» con i canoni di un romanzo storico – volutamente non ho dissociato il «soggetto» i tre compagni dallo scrivente, al gruppo dei quali appartengo, pur con otto secoli di ritardo. E questo perché la cosiddetta «leggenda dei tre compagni» è la più importante delle biografie non ufficiali su Francesco, cioè delle «vite» del Santo non scritte su commissione e dietro controllo papale o della classe dirigente dell’Ordine francescano. La sua denominazione è dovuta alla sua attribuzione a Leone, Rufino e Angelo, attestata dalla «Lettera di Greccio» dell’11 Agosto 1246, che nella tradizione manoscritta fa da premessa ai diciotto capitoli che la compongono, ma che con essi non sembra avere molto a che fare.
Leone fu compagno di Francesco tra i più cari, vicini e amati, testimone dei fatti più significativi e intensi della vita del Poverello, destinatario della sua benedizione conservata in un biglietto autografo. Fu insieme a Francesco nella predicazione, nelle difficoltà, a Fontecolombo, sul monte della Verna. Lo assistette nel momento della morte. È ricordato per la semplicità e la purezza. Rufino «gentile uomo di Assisi» è ricordato, invece, «per la virtuosa incessante orazione… pregava anche dormendo e in qualunque occupazione aveva incessantemente lo spirito unito al Signore». Forse balbuziente e «senza l’ardire né la facunda del predicare», fu tra i compagni che furono più vicini a Francesco il quale lo indica in un «fioretto» come «una delle tre più sante anime del mondo». Angelo, uomo cortese, nobile e delicato, primo cavaliere entrato nell’Ordine, «fu adorno di ogni bellezza e bontà». Fu tra i compagni di Francesco che vissero «più a lungo insieme con lui», suo guardiano e coadiutore nella predicazione. Presente alla Verna, quando il Santo ricevette le stimmate, insieme a Leone e Rufino – e forse a Bernardo –, lo assistette nell’ultima malattia e nel momento della morte.
Ho scelto, insomma, questa «leggenda» di tre tra i primi campioni che seguirono il Poverello perché costituisce, in ogni caso, un testo di alta religiosità e il suo valore sta proprio nella rappresentazione della primitiva fraternità francescana, nel largo spazio offerto all’operato dei compagni del Santo, seguendo e raccogliendo, soprattutto, la tradizione assisiate, al punto che meglio di ogni altra potrebbe meritare l’appellativo di «leggenda assisiana». Il processo evolutivo del tema della conformità del Poverello con Gesù Cristo, accennato già in altre biografie «ufficiali» e portato a maturazione di coscienza da Bonaventura (1217-1274), è qui assolutamente centrale per la valutazione spirituale del Santo. Il rapporto di Francesco con Gesù Cristo, la continuità dei suoi incontri con Lui, l’adeguarsi della sua vita a quella del Figlio di Dio per merito di doni particolari come quello delle stimmate, conferiscono all’opera una linearità quasi unica. È da escludere, perciò, che sia da riconoscere in questo scritto, dalle caratteristiche unitarie e cronologiche, il famoso «florilegio» messo insieme a più mani e inviato dai tre compagni di Greccio che sottoscrissero la Lettera del 1246, come farò intuire alla fine del libro tra le righe. Questa conclusione non pregiudica tuttavia, e in alcun modo, il significato e l’importanza di questa «leggenda», scritta nel periodo post-bonaventuriano, anche se è difficile stabilire se prima o dopo quella dell’«Anonimo perugino», con il quale ha notevoli affinità.
Il primo giorno, dunque, fu proprio ottocento anni or sono: lì fiori, come dicevo prima, la «grazia delle origini». Molte, tra tutte le confidenze, le confessioni e i ricordi che i tre compagni narreranno in questa biografia della primitiva fraternità francescana, sono state percepite dallo scrivente come proprie. Anzi, in alcuni casi, l’Autore si confonde volutamente nel resoconto stilato dai tre compagni, ovvero tra il loro dire. E un’importante confessione è precisamente questa: mentre scrivevo la biografia, essa ha «contagiato» anche me. Conoscevo Francesco, le «Fonti Francescane», la storia del movimento francescano e dell’Ordine, ma l’obbligo di dare questa sintassi a questo libro, ha reso la figura del Poverello di Assisi ancora più affascinante ai miei occhi. Lo esprimo soltanto con un esempio: l’amore, la devozione e il profondo rispetto sempre dimostrati da Francesco ai sacerdoti «ministri del santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo» (Fonti Francescane n. 176, 20042, p. 147), pur essendo storicamente fondati hanno insinuato in me un rinnovato affetto – tutto «francescano» – per questi uomini che, anche oggigiorno, si spendono senza sosta per i cuori spezzati e sono, in realtà, gli unici che ci permettono, ancora e grazie a Dio, di poter ricevere la Santa Eucarestia, la presenza di Gesù nel pellegrinare terreno e nel tempo verso l’eternità che tutti ci contraddistingue. E questo l’umile e piccolo Francesco d’Assisi lo aveva capito benissimo. Per questo – cordialmente – dedico le pagine che seguono a tre sacerdoti vicentini, diocesani ma nel loro cuore del tutto francescani, che mi hanno indirizzato con delicatezza, rispetto e tenerezza pastorali, alla scelta sublime della vita religiosa francescana: don Antonio Basso (1904-1989), mons. Giuseppe Garzaro (1941-2004) e don Carlo Coriele (*1941). Perché francescani lo si è dentro, non (solo) fuori. Questo è il segreto. A laude di Dio e del suo servo Francesco.