La Lettera dal Convento di fra’ Gianluigi Pasquale di oggi, venerdì 21 aprile.
Una cifra riconoscibile del cristianesimo
Vi è una caratteristica singolare che identifica fin da subito il cristiano e la Chiesa e rispetto alla quale tutti si trovano d’accordo: il prendersi cura dell’altro, soprattutto del povero, dell’ammalato, del bisognoso, dell’indifeso – come lo sono i bambini non nati e quelli nati e gli anziani – e del forestiero.
Curare e prendersi cura
Nello scenario attuale, tipico della società e della Chiesa del XXI secolo, il prendersi cura del prossimo chiama, infatti, in causa la credibilità di quel soggetto o di quella istituzione che la attua. Si crede in colui che si fa carico di qualcuno. La «cura», il «curare» («sorgen») ha due significati. Il primo è relativo all’atto di «curare» («besorgen», «healing») e non implica necessariamente il coinvolgimento del curante con il paziente, come accade per i medici e gli infermieri i quali, pur curando, mantengono un certo comprensibile distacco dalla malattia e dal malato. Ma vi è anche il «prendersi cura» («fürsorgen», «take care»), dove il curante si coinvolge del tutto con l’infermo, o il paziente o il bisognoso, cosicché la guarigione dell’uno corrisponde alla felicità dell’altro, in un certo senso alla sua realizzazione. Nel primo caso, il paziente è trattato – inevitabilmente – come un “oggetto”, nel secondo come un “soggetto”, un “altro per me”, direbbe Paul Ricoeur (1913-2005). Il prendersi cura, dunque, è molto più della prestazione di una competenza professionale. È il saper incrociare la storia e l’esistenza, di chi ha bisogno, con la nostra presenza, il nostro aiuto e, soprattutto, il nostro tempo.
Le religioni e la cura dell’altro
Tutte le religioni e le tradizioni religiose, cristianesimo compreso, si caratterizzano e si spendono sia nel prendersi cura, che nella cura dell’altro. Con una differenza fondamentale: c’è chi lo fa “in nome di Dio” e chi lo fa “per l’uomo” che viene curato, sic et simpliciter, perché il Figlio di Dio si è fatto uomo. Nel primo gruppo rientrano tutte le religioni e i loro adepti, nel secondo il cristianesimo e i cristiani. O almeno così dovrebbe essere. La differenza è fondamentale perché se succedesse che un cristiano si prende cura di un altro uomo poiché in lui vede Gesù Cristo (Mt 25,40), il prendersi cura sarebbe ancora “in nome di Dio”, cioè il gesto rientrerebbe ancora in una obbedienza ai comandamenti, dell’Antico e del Nuovo Testamento. Potrebbe, però, sorgere così l’interrogativo se il cristianesimo corrisponda soltanto all’esercizio di un puro umanesimo, cessando di essere una fede e trasformandosi in mero filantropismo.
L’umanesimo cristiano
L’umanesimo, inteso quale prendersi cura dell’uomo per l’uomo in quanto tale, è, invece, figlio genuino e legittimo della fede cristiana. Questo “passaggio”, questo snodo si capisce facilmente osservando la vita dei santi e delle sante, che, infatti, lo hanno reso tangibile. Basti pensare a Santa Madre Teresa di Calcutta (1910-1997), a San Giovanni Bosco (1815-1888), a San Giovanni Calabria (1873-1954), al beato Solanus Casey (1870-1957) e a tanti altre e altri. Come sappiamo, l’unico anelito che ha guidato l’esistenza di tutti i santi è stato quello di vivere una vita come “piace a Dio” – e in ciò sono tra loro tutti accomunati –, prima ancora che compiere la volontà di Dio espressa nei comandamenti. Quando ciò accade, succede che si passa dal mero anonimato alla fantasia della carità, ovvero a far nascere un nuovo carisma che rende attuale il modo per essere come Gesù oggi. Vivere come “piace a Dio” implica, dunque, il discernimento nel capire come e che cosa “piace a Dio”; l’obbedire ai comandamenti, invece, potrebbe ridursi soltanto a mettere in pratica ciò che si ascolta o si sa già. Ora la sacra Scrittura ci assicura che chi compie ciò che piace a Dio, pur senza conoscerne i comandamenti (1Tm 2,4), agisce di fatto da credente (1Pt 3,21), e, nel mentre pratica il bene, cioè salva gli altri, salva di fatto se stesso.