«Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32). Non trascorrono inani gli anni dell’esistenza personale di ciascuno, senza che questi si accorga, prima o dopo, di questa orizzontale verità: nessuna cosa riavvicina, là dove la Parola manca. Così accade, talvolta, per i silenziosi rapporti interpersonali, ma questo è pure il dinamismo che il Vangelo di Matteo sottende alle potenzialità della Parola rivelata, la quale, dove manca non riavvicina, ma dove, invece, viene detta e confessata, unisce gli uomini con Dio e gli uomini tra di loro. «Chi dunque mi riconoscerà» «omologhései», scrive la redazione matteana del Vangelo ponendo al futuro il verbo «omologhéin» — ossia lo «stesso parlare» — «anch’io di lui dirò lo stesso al Padre mio» e, quindi, «lo riconoscerò». È semplicemente stupendo essere ri-conosciuti. La ri-conoscenza è l’inveramento nel futuro di un rapporto interpersonale così come era stato costruito tra i due nel passato, quando quei due parlavano lo stesso linguaggio e dicevano le stesse cose l’uno dell’altro e, quindi, si confessavano. Il dato esegetico incontrovertibile che il Vangelo di Matteo unisca tra loro, così strettamente, quindici versetti del capitolo vigesimo quinto al trentaduesimo del capo dieci attorno al nocciolo duro della riconoscenza, di tipo verbale nel capitolo dieci, con i lineamenti dell’amore e della carità nel capitolo venticinque, apre al teologo la possibilità di tracciare alcune considerazioni. Vogliamo farlo, però, pensando al filo di Arianna che intende incorniciare queste riflessioni e che qui è l’assunto già enunciato: nessuna cosa riavvicina, là dove la Parola manca. Per la nostra giovanissima vita religiosa crediamo fermamente che la Parola agisce potentemente se viene ascoltata e, dove vi è parola, vi è unione, mentre dove essa manca tutte le ermeneutiche sono possibili, e quindi nessun evento si unifica al tutto. Qui ha ragione Rudolf Bultmann (1884-1976): se Tu ascolti, la Parola si realizza in Te, non nell’udire, ma nel rispondere. In questa maniera accade quel miracolo per il quale ri-conosciamo che nelle nostre fraternità non ci sono operai, ma innamorati.
Quando si esce dalla storia i personaggi del dramma sono sempre tre
È, innanzitutto, da notare che la liturgia della Parola — e la consistenza della liturgia è soprattutto quella di essere didaskalia Ecclesiae — pone all’inizio della prima settimana di Quaresima questo brano che rimanda simultaneamente al passato e al futuro, aprendo, pertanto la possibilità di inserire una teologia della storia. Che cosa sono, infatti, i quaranta giorni? Non un sacramento, bensì un sacramentale. In quale senso? Nel Nuovo Testamento vi sono dei tratti specifici della vita storica di Gesù nei quali l’eternità aggancia il tempo, divenendone la sua traccia. Si tratta del battesimo, della trasfigurazione della risurrezione e, per quanto ci riguarda adesso, anche dei quaranta giorni. In questi frattempi avviene nel tempo ciò che un verbo tedesco aufheben esprime al meglio nel duplice simultaneo significato di sollevare e di annullare. Il tempo del battesimo, della trasfigurazione, della risurrezione e della Quaresima sono delle cronometrie in cui il divenire è sollevato e insieme annullato nell’eternità. Ciò nonostante, l’elemento certamente più caratteristico, che in questa drammatica temporale agisce, è la Trinità: Gesù non è mai da solo, ma vi è il Padre e assieme anche lo Spirito Santo, che, come per i quaranta giorni, spinge Gesù nel deserto.
Il tempo è il mistero della salvezza
Pure nei quindici versetti del capitolo venticinque di Matteo, Gesù parla ai suoi discepoli in termini utilizzando i quali il tempo sembra quasi sparire, ma, per ciò stesso, assumendo un’importanza tale per cui in esso sembra doversi giocare l’eternità. Se Israele possedeva una consapevolezza del tempo fondata sulla fedeltà di Dio che realizzava certamente nel futuro le promesse proferite nel passato perché si comportava sempre allo stesso modo, nella proposta di Gesù circa l’amore al prossimo attuato nel passato per una riconoscenza nel futuro da parte di lui davanti al Padre, si inserisce qualcosa di completamente nuovo. Questo novum è anche il cuore di questa riflessione. Ossia: se, come prima opzione, le religioni propongono che, amando Dio, può anche succedere che si possa scivolare ad amare il proprio simile, soltanto la fede cristiana annuncia che amando innanzitutto il proprio fratello si deve ineluttabilmente amare anche Dio. E questo annuncio gode di graziosità. Se io amo primariamente soltanto Dio, lascio al mio atto di libertà religiosa l’eventualità di amare anche chi mi assomiglia, ma se io guardo gli occhi di chi è creato simile al Dio di ogni somiglianza, e amo questo fratello e lo servo, allora — si può qui perfino dire ex opere operato — nella fede amo necessariamente anche Dio. Qui soggiace il centro, il fondamento e la sorgente perenne della fede cristiana: in Gesù Cristo, Dio è l’uomo. Lo scopo, quindi, di agire con amore e al servizio del fratello nel presente, non si circoscrive attorno a una finalità utilitaristica per il raggiungimento del Paradiso nel futuro, e men che meno attorno al ricercato riconoscimento di Gesù davanti al Padre. La carità è, piuttosto, un confessare l’incarnazione e compiere l’autentico omologhein che gli occhi di un fratello riverberano la luce stupenda di quelli di Gesù, perché di questo noi siamo teologicamente, e quindi realmente, sicuri nel presente. Il resto, il futuro, lo possiamo solo sperare, non sapere. Ma questa è anche la differenza fondamentale tra la sinagoga e la Chiesa di Cristo. Sotto questa prospettiva, infatti, si deve leggere quella costante determinazione al bene che i nostri frati avevano nel silenzio e nel presente. Chi serve realmente e veramente nel presente non mira mai al riconoscimento nel futuro, ma dal futuro di attende soltanto ciò che si narra accadere già, laddove i verbi si usano al presente, tralasciando biografie passate e pronostici futuri: «ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
La visibilità della presenza
Rileggere proprio i versetti di questo capitolo di Matteo senza visualizzare brevemente il sottofondo veterotestamentario che ne è il preludio, comporterebbe il rischio della parzialità. Il continuo implicito rimando è rivolto, infatti, all’identificazione di chi è l’«altro» inteso da Gesù giudice universale. È, forse, il frate-llo? Oppure il prossimo? O chi sappiamo essere destinatario di «un pane per amor di Dio» (ma dopo quello che si è detto sarebbe più opportuno dire: «un pane per l’altro che è amore di Dio»)? Già il profeta Isaia (58, 7) riconosceva che l’atteggiamento «non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne», ma anche il terzo ciclo dei discorsi del libro di Giobbe, quello che inizia al capitolo 22, denuncia: «non hai dato da bere all’assetato e all’affamato hai rifiutato il pane» (v. 6), mentre il Siracide (7,32) presenta questo invito: «al povero stendi la tua mano perché sia perfetta la tua benedizione». Evidentemente, già soltanto da queste poche occorrenze l’«altro» è soltanto una persona: il prossimo che è presente, colui che si vede, ma appunto perché è lì presente. E questo è un secondo consistente annuncio. L’«altro» è il presente e, lo sappiamo bene, la presenza è tale perché è sempre lì-davanti. Il fratello, l’«altro», l’amico e il nemico è il prossimo Gesù che Ti è presente, proprio perché la presenza non si può obliterare, si può forse odiare, oppure amare, ma in quanto presenza è sempre lì, silenziosamente davanti a te nell’esigere riconoscenza anche quando non la ottiene. In questo caso, il fratello, l’altro è proprio un «sacramento», il luogo più sicuro e più certo nel quale, non nel passato che giammai ci appartiene, e nemmeno nel futuro che ancora non è, ci permette di servire l’immagine di Gesù nella somiglianza del prossimo presente. È proprio vero, dunque, che nella presenza vi è il cielo sulla terra: «Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Azione nella presenza, rivelazione alla fine
Se questo presente e queste presenze, che per noi dureranno quaranta giorni e oltre, risultano, allora, così significative, perché il giudizio finale emergente come architettura del discorso in Matteo venticinque, è rimandato soltanto alla fine? Detto in altri termini: perché deve esistere un giudizio universale? Almeno da un punto di vista della teologia della storia, non si può, evidentemente, dire che ogni tempo e ogni epoca, presa per sé, possegga un senso definitivo. Tempi ed eventi anteriori ricevono il senso da altri posteriori. Per esempio: io rimango frate (al presente) se mi sono (nel passato) innamorato. Ma in modo analogo si tramuta anche l’effetto futuro dell’azione cristiana: ogni epoca compiuta veramente nella fede provoca non solo degli effetti contemporanei, qui e adesso, ma anche degli effetti futuri. Se un cristiano si sottrae al suo compito, che è di inserirsi «come pietra viva nel tempio spirituale» (1Pt 2,5), è chiaro che egli viene a modificare in senso negativo e dannoso la missione di tutti coloro che avrebbero dovuto inserirsi al di sopra di lui. Il «no» al progetto nel tempo, lascia un vuoto nella storia. Per questo anche il «giudizio particolare» deve essere solo provvisorio, e l’umanità intera deve essere giudicata alla fine in un unico e indivisibile giudizio, sociale e individuale insieme, e posta sulla bilancia dell’eternità. Ma tutte le reciproche determinazioni e trasformazioni dei destini umani, anteriori e posteriori, restano subordinate al destino del Figlio fatto uomo, che tutte le domina. Secondo Matteo venticinque, insomma, soltanto Gesù sarà il giudice supremo, Egli e non il Padre, giacché il Padre «gli ha rimesso interamente la potestà di giudicare» (Gv 5,22) perché nella presenza del prossimo realmente incontriamo Gesù. La proposta dei quaranta giorni per il 2002 è, quindi, insieme fascinosa e tremenda. Per questo, a tal proposito occorre qui ricordare, in chiusura, che Francesco, nel mangiare l’uva con il proprio frate-llo in pieno tempo di Quaresima ha irrimediabilmente inalveato nel nostro sangue di Francescani la speranza di credere che il senso di quanto compiamo, anche sbagliando se fatto senza malizia, è protetto in Dio. Dio è esattamente Dio perché è presente come è presente il fratello, scegliendo il quale, ex opere operato, scegliamo Dio. Se compiendo questa scelta non vediamo ancora nell’«altro» un fratello, tuttavia crediamolo presente. Infatti, uno attua e coglie il senso della propria esistenza in generale solo se dimentica, nell’amore di Dio, la questione di un senso posseduto e gustato autonomamente per se stesso, nell’amore di quel Dio che viene amato per amor suo unitamente alla sua incomprensibilità. In ogni caso, un punto rimane assodato: il senso definitivo della propria storia è nascosto in Dio, e il riconoscimento pieno-di-amore di tale incomprensibilità è l’atto più elevato della propria storia, atto che può e deve verificarsi in essa, se essa deve trovare il proprio compimento». Se, dunque, è pure vero che nessuna cosa riavvicina, là dove la Parola manca, vi è, però, una parola che toglie all’egoismo il proprio vuoto, ed è questa: «Vieni, benedetto del Padre mio, ricevi in eredità il regno preparato per Te fin dalla fondazione del mondo». Questa, infatti, non è solo una parola. E anche una promessa, quella di un fratello presente, che ci assicura: «l’hai fatto a me». E questi è Gesù.