È questo un intervento del futuro Papa Giovanni Paolo II del 23 settembre 1964 che si inserisce nel terzo periodo e nella terza intersessione (14 Settembre – 21 Novembre 1964)[1]. A mio modesto modo di vedere si tratta del periodo più fecondo perché i Padri conciliari iniziano a maturare l’idea princeps di «Chiesa communio». Fin dalle prime battute fu chiaro che la netta contrapposizione tra le due tendenze, di cui abbiamo sopra accennato, restava inalterata di fronte a quella che, oramai, si poteva definire la “teologia del popolo di Dio”. Dopo il vescovo Stefan Bareła (Czestochowa, 1916-1984), il 23 Settembre 1964 prese la parola Karol Wojtyła, il quale dichiarò che lo schema gli piaceva decisamente più della redazione precedente per la brevità e la migliore disposizione del contenuto[2]. Esso, infatti, riconosceva l’apostolato dei laici come esistente dalle origini della Chiesa[3]. Il principio del dialogo, anche internamente alla Chiesa, di cui aveva parlato Paolo VI (1897-1978) nella sua prima enciclica (1964), doveva essere affermato come costitutivo per l’apostolato[4]. Tale dialogo – dice Wojtyła – diviene dialogo con Dio nella preghiera. Tuttavia, nello schema si parlava troppo poco del diritto e del dovere dei giovani all’apostolato e del dialogo tra le generazioni, dal quale nella Chiesa nasce la continua necessità ad adattarsi e a rinnovarsi[5]. Superfluo notare che quest’ultima precisazione – dopo il Pontificato del Beato Giovanni Paolo II e le “Giornate Mondiali della Gioventù” – è tutt’altro che irrilevante.
Chiesa communio
Ma a proposito del concetto di «Chiesa communio» Wojtyła si mosse in questo modo: innanzitutto lo innestò in uno scenario schiettamente ecumenico, chiedendo che si evitasse di utilizzare l’espressione «tolleranza», evidentemente fuorviante nei rapporti ecumenici con le altre confessioni cristiane; quindi, insistette per un pronunciamento sulla libertà religiosa di cui la Chiesa non può fare a meno nel consorzio sociale e in questo caso si poteva concedere di dettagliarla attraverso il principio della reciproca «tolleranza»; infine Wojtyła legò strettamente nella Chiesa la possibilità della libertà con quella della verità, l’unica a renderci liberi (Gv 8,32). Disse infatti: «non datur libertas sine veritate»[6]. Nemmeno un mese più tardi, il 20 Ottobre 1964, Karol Wojtyła presiede la celebrazione eucaristica in San Pietro alle ore 9:00 alla quale partecipano 2.191 Padri conciliari. Poche ore dopo inizia il dibattito inerente lo Schema XIII sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, da non confondersi né con la quinta versione, né con la settima stesura dello stesso, rientranti, questi, sotto l’egida, ovvero la nomenclatura del “testo di Ariccia”[7].
Lo Schema XIII
La discussione intorno al celeberrimo Schema XIII è difficilmente sintetizzabile. In una lettera inviata a Papa Paolo VI e firmata da ventitré conferenze episcopali l’11 Ottobre 1964 si definiva detto schema un «felice complemento allo schema De ecclesia», una «sintesi di tutti gli schemi»[8]. Wojtyła ne era ben consapevole. E, infatti, l’esegesi del suo intervento, formulato verso la fine del mese di Settembre 1964, denuncia la positiva passione con la quale l’Arcivescovo polacco si prese a cuore il «De Ecclesia in mundo huius temporis». Dallo stesso estrapoliamo i soli elementi ecclesiologici che ci interessano, cercando di evidenziare lo stante sul quale il ragionamento condotto da Wojtyła – lungo ben 17 cartelle tra gli Acta Synodalia – intendeva polarizzare l’attenzione dei Padri conciliari. Questo stante era, appunto, un «methodus heuristica» che, precisa il Nostro, «permettendo discipulo veritatem quasi ex suis invenire»[9]. Con questo metodo, fa capire Wojtyła, da una parte si frena quella mentalità cosiddetta “ecclesiastica” che vedrebbe il mondo come fosse in uno stato di deplorevole situazione, creando una sorta di pregiudiziale “a priori” alle possibilità di dialogo con lo stesso; dall’altra si ottiene il vantaggio di poter parlare all’interlocutore «vi argumentorum», con la forza, quindi, cogente delle questioni poste in essere, tra cui primeggiano quelle morali le quali «sumantur ex lege naturae»[10]. Wojtyła compie, poi, un passo ulteriore affermando che quando si parla di «mondo» – egli, precisa, sarebbe meglio parlare di «mondi» – «homine semper in mente habeamus»[11], cioè l’uomo nella Chiesa e fuori della Chiesa, perché la Chiesa non deve solo parlare agli uomini, ma anche mostrarsi ad essi con la sua presenza. Ci piace qui mettere in evidenza alcuni particolari: innanzitutto, lo scenario per così dire “mondano”, il mondo appunto, che per l’Arcivescovo di Cracovia è esattamente il campo di azione della Chiesa; quindi, il consistente rilievo dato all’antropologia culturale, ossia la consapevolezza che tutti gli uomini viventi siano il fine ultimo dell’azione della Chiesa avendo Gesù Cristo mandato («vehementer») gli Apostoli proprio a loro e per loro; infine, il fondamento cristologico perché – continua Wojtyła – la Chiesa deve introdurre l’evo terreno in quello eterno e per ciò essa è come un sacramento[12]. Detto in maniera più precisa, essendo la Chiesa una presenza (-), essa naturalmente si espone al mondo, si mostra ad esso, proprio come Gesù.
A qualsiasi Teologo balzerebbe qui subito agli occhi la stretta analogia tra questo rimando cristologico alla presenza della Chiesa nel mondo e quanto recita la Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione Dei Verbum (18 Dicembre 1965), là dove si afferma che Gesù, «uomo tra gli uomini» soprattutto con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé compie e completa la Rivelazione», «che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna»[13].
Le cinque tesi sull’ecclesiologia conciliare Wojtyłiana
È giunto il momento, adesso, di tirare le fila e di proporre una sintesi di quella «Chiesa sacramento di Cristo» che qui si è tentato di far emergere dall’esegesi degli interventi al Concilio Ecumenico Vaticano II. Il primo guadagno incontrovertibile sfata il pregiudizio che l’apporto ecclesiologico di Karol Wojtyła all’assise conciliare fosse stato marginale o, addirittura, assente. Qui, ci sembra, di aver dimostrato esattamente il contrario. E cioè che gli interventi al Concilio sulla Chiesa del futuro Giovanni Paolo II hanno portato in maniera determinante a quella concezione di Chiesa alla quale noi siamo talmente abituati che ci apparirebbe strano il fatto che, invece, prima non fosse sempre stato proprio così. Volutamente abbiamo tralasciato gli interventi sull’ecumenismo, sulla mariologia e sulla libertà religiosa, che pure ebbero un’interessante ricaduta ecclesiologica. Soltanto quelli fatti sulla “teologia della Chiesa” ex-professo individuano un trittico – Cristo, Chiesa, mondo – sul quale Karol Wojtyła fissa la sua riflessione, e che noi rimettiamo adesso in ordine attraverso cinque tesi.
[1] Cfr. G. Alberigo, ed., Storia del concilio Vaticano II. IV. La chiesa come comunione. Il terzo periodo e la terza intersessione (Settembre 1964-Settembre 1965), Il Mulino, Bologna 1999, 132-133.
[2] Cfr. K. Wojtyła, AS III/III, Pars I Sessio publica IV. Congregationes generales LXXX-LXXXII, 613-617.
[3] Cfr. K. Wojtyła, AS III/III, Pars IV. Congregationes generales XCLVI-CII, 69.
[4] Cfr. Paolo VI, Lettera Enciclica Ecclesiam suam (6 Agosto 1964), in Enchiridion Vaticanum 2, Edizioni Dehoniane, Bologna 197610, 193-194.
[5] Cfr. G. Alberigo, ed., Storia del concilio Vaticano II. IV, 272.
[6] K. Wojtyła, AS III/III. Congregationes generales LXXXIII-LXXXIV, 530-532, qui 531. Vale la pena ricordare che, secondo Wojtyła, la libertà religiosa è parte della stessa dottrina della Chiesa: cfr. K. Wojtyła, AS, IV/II, 293.
[7] «Già durante la terza sessione mi trovai nell’équipe che preparava il cosiddetto Schema XIII, il documento che sarebbe poi diventato la Costituzione pastorale Gaudium et spes; potei in tal modo partecipare ai lavori estremamente interessanti di questo gruppo, composto dai rappresentanti della Commissione teologica e dell’Apostolato dei laici. Sempre vivo nella mia memoria rimane il ricordo dell’incontro ad Ariccia, nel gennaio 1965»: Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, 172. Per una sintesi storica cfr. G. Alberigo, ed., Storia del concilio Vaticano II. IV, 550-669; Id., ed. Storia del concilio Vaticano II. V. Concilio di transizione. Il quarto periodo e la conclusione del concilio (1965), Il Mulino, Bologna 2001, 402-407, e R. Skrzypczak, Karol Wojtyła, 91-95.
[8] Cfr. L. Perrin, Il «Coetus Internationalis Patrum» e la minoranza conciliare, in M.T. Fattori – A. Melloni, ed., L’evento e le decisioni, Il Mulino, Bologna 1997, 173-187. Si veda inoltre: G. Alberigo, ed., Storia del concilio Vaticano II. IV, 306.
[9] K. Wojtyła, AS III/III. Congregationes generales LXXXIII-LXXXIV, 298-314, qui 299.
[10] K. Wojtyła, AS III/III. Congregationes generales LXXXIII-LXXXIV, 299.
[11] K. Wojtyła, AS III/III. Congregationes generales LXXXIII-LXXXIV, 300.
[12] Cfr. K. Wojtyła, AS III/III. Congregationes generales LXXXIII-LXXXIV, 305.
[13] «Iesus Christus […] “homo ad homines” missus, […] tota Suiipsius praesentia ac manifestatione […] revelationem complendo perficit»: Concilio Vaticano II, Constitutio dogmatica de divina Revelatione Dei Verbum [n. 4], in Enchiridion Vaticanum 1, Edizioni Dehoniane, Bologna 198513, 490-492.