Pubblichiamo, in otto puntate, una riflessione teologica di fra’ Gianluigi Pasquale intitolata “L’esegesi della Scrittura in san Bonaventura. Il modello del Commentarius in Evangelium Ioannis”. Questa è l’ultima puntata.
Nella relazione al Verbo l’uomo ha l’essere, la vita, la comunione con Dio
Come accennato sopra seguono, poi, questi altri approcci alla contemplazione del Verbo.
Verbo cooperante
«Senza di lui niente è stato fatto» (Gv 1,3). Il Verbo è «principio indefettibile, che non è assente da alcuna operazione. Il Padre non fa nulla senza il Verbo. […] Così anche la creatura non è in grado di far nulla senza la cooperazione del Verbo»[1] (10.).
Con un’immagine si può dire che il Padre e la creatura stanno su sponde opposte rispetto al potere operativo del Verbo, posto al centro. Tutta l’economia divina è opera comune e allo stesso tempo personale del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, per cui ciò che il Padre fa, lo fa per il Figlio nello Spirito Santo. Allo stesso tempo, la creatura dipende in modo radicale, ontologico, dal Verbo, per mezzo del quale è stata creata, nel quale è stata esemplata e dal quale è stata illuminata.
Attraverso la dottrina dell’esemplarismo, Bonaventura vuole evidenziare le relazioni d’espressione che esistono tra le creature così come sono in se stesse e come sono nel Verbo di Dio[2]. L’anima razionale è creata a sua immagine e perciò possiede il desiderio naturale, la conoscenza e la memoria di lui, e a lui tende per raggiungere – in lui – la suprema felicità[3]. Il filosofo che volga lo sguardo alla creazione non può non coglierla nella sua relazione al Verbo, pena la vacuità della sua indagine[4].
L’essere e il nulla. Il male.
L’essere purissimo non si presenta che mettendo in piena fuga il non-essere, come il nulla mette in piena fuga l’essere. Come, dunque, il nulla non ha alcunché dell’essere e delle sue condizioni, così l’essere non ha nulla in comune con il non-essere[5].
C’è una questione (In Ioan. I, 14 q. 1) relativa al versetto «Senza di lui niente è stato fatto». Questo l’argomento in contrario: chi ruba fa qualcosa, poiché il furto è qualcosa; allora il furto è da Dio e da lui provengono e accadono i peccati e i mali. In alternativa, il peccato è il «niente», cioè quel niente che è stato fatto senza di lui, causa appunto dell’ente e non del niente; ma il peccato corrompe, ciò che corrompe agisce, ciò che agisce è un ente, ciò che è ente è qualcosa, per cui anche in questo caso Dio sembra l’origine del male (cfr. 14.).
Bonaventura risponde distinguendo tre livelli di peccato dalla loro relazione all’essere: talvolta peccato è «un’azione priva di qualche qualità che gli converrebbe» («actio privata aliqua debita circumstantia»), e quindi «è qualcosa» («est aliquid»); talvolta è «un debito ma privo del bene che dovrebbe avere» («debitum cum privatione boni, ad quod est»), e, quindi, «è solo sotto un certo aspetto» («est secundum quid»); nel terzo senso è «la stessa privazione del bene» («ipsa boni privatio»), cioè «è assolutamente niente» («est omnino nihil»). Tale risposta esclude una qualsiasi consistenza ontologica del male. Infatti, «a seconda che si riferisce al bene sottinteso, deriva da Dio, ma non in ragione della deformità»[6]. E precisa, con lo Pseudo-Dionigi, che «il peccato agisce in quanto ha un bene sottostante» («peccatum agit […] per naturam boni substratum»). Il Dottore Serafico si pone, quindi, sulla linea di Agostino (che la media dai neoplatonici) per il quale tutto ciò che esiste è bene e il male è mancanza di bene, derivando dalla perversione della volontà che si allontana da Dio e si volge a beni inferiori[7]. L’uomo che si priva del bene di Dio scivola verso il nulla, il non-essere. È importante, nel pensiero bonaventuriano, mettere in evidenza la vocazione ontologica di tutte le creature. Le creature esistono perché Dio le ama e il Bene è «diffusivum sui»[8] ed è «la ragione gratuita di tutto»[9]. Esse radicalmente sono e vivono in quanto sono in relazione al Verbo.
Il Verbo principio dell’essere e della vita: la vocazione ontologica delle creature
Una quaestio (In Ioan. I, 15 q. 2) riguarda le parole «Ciò che è stato fatto era vita in lui». Già si è accennato all’analisi di Bonaventura sulle varianti testuali utilizzate dai Padri per questo passo. Egli sceglie la lezione agostiniana, la quale mette in risalto «in ipso vita erat», e precisa:
«era vita in lui» nel senso che in lui aveva il modello e l’idea di vivente; questa idea di vivente è spirituale, non materiale; immutabile e perciò non cangiante; eterna e quindi incorruttibile. Questa è l’idea di vita: vita, infatti, è un atto spirituale e continuo derivante da un ente stabile e di durata sempiterna[10] (15.).
La vita fluisce dall’ente stabile ed eterno nel quale non c’è alterazione ontologica («Qualsiasi mutamento è una specie di morte», «transmutatio omnis nonnulla mortis est», 11.). Il Verbo divino è principio dell’essere, perché, della stessa sostanza del Padre, è la Parola con cui egli chiama ogni cosa all’esistenza, e in particolare è principio della vita. L’uomo, che è stato creato con in sé il germe dell’autosuperamento e dotato di un canale privilegiato di comunicazione con Dio, il quale l’ha fatto per sé, ha una mèta ontologica: la comunione con Dio; solo in questa condizione l’uomo è veramente ciò che è. La visio beatifica è l’obiettivo, il senso di tutto il desiderio e l’agire umano: se operano insieme rettamente la facoltà conoscitiva, la capacità operativa e la capacità affettiva, l’uomo si dirige senz’altro alle cose eterne. Questo emerge virtualmente in ogni pagina bonaventuriana e manifesta una visione profondamente ottimistica della vita, primo dono all’uomo. Il sommo della vita è l’estasi mentale e mistica «che quieta l’intelletto e trasporta totalmente l’affetto in Dio»[11].
Cognoscere Deum
Nella risposta alla quaestio (In Ioan., I, 43 q. 3) su «Nessuno ha visto Iddio», è interessante la spiegazione del Serafico riguardo alle modalità della conoscenza di Dio. La forte affermazione evangelica sembra trovare argomenti scritturistici contrari nel Libro dei Numeri (Nm 12,8), dove Mosè viene descritto come interlocutore di Dio «faccia a faccia», e nella visione di Isaia al tempio (Is 6,1). Per chiarezza riporto lo schema che si ricava dal testo, perché vi si ritrovano in sintesi diversi punti toccati dal presente studio[12]:
Ritroviamo qui la distinzione di essenza e operazione divina. La condizione umana impedisce la visione diretta di Dio, e la differenza tra la conoscenza prima e dopo il peccato originale sta nel grado di chiarezza dello specchio ove si riflette l’agire divino. Mentre la conoscenza diretta di Dio in sé è data per natura al Figlio e per grazia ai Beati, la visione oscura del mistero è stata concessa a Mosè e ai mistici, che sono elevati da Dio addirittura sopra la condizione dell’uomo prima della caduta. Splendida la precisazione riguardo a coloro che sanno contemplare in modo eccelso: «in realtà più che conoscere essi sentono; per cui Bernardo attesta che quando sentiva in sé qualcosa e voleva vederlo, subito lo perdeva»[13]. È l’«introitus in caliginem»[14], un sentire estatico che «gusta nell’impotenza a gustare, sente desiderando e sospirando quello che non può sentire»[15].
Questa è la piena realizzazione della creatura nelle braccia del suo Creatore: attingere alla pienezza ridondante di Cristo, capo cui le membra sono legate con il «vincolo della fede e dell’amore» («ligamen fidei et dilectionis»), la salvezza eterna (42.). Per coloro che l’accolgono, il frutto della venuta del Verbo sulla terra è il dono della figliolanza divina (cfr. 27.); poter chiamare Dio Padre vuol dire partecipare alla sua eredità nella vita eterna: la risposta umana è decisiva per la vita o per la morte.
Pulchrum
È opportuno concludere questa sezione teoretica sottolineando il senso estetico che pervade tutta l’opera bonaventuriana e che emerge anche nella parte iniziale del In Ioan. qui considerata. L’ordine, il numero come struttura della realtà, la concezione gerarchica dell’universo e la bellezza che lo pervade, dicono lo sguardo ammirato di Bonaventura che contempla l’opera dell’Amato: trovare nel Verbo incarnato la causa efficiente e l’immagine dell’universo vuol dire interpretare questo come espressione della gloria di Dio e, quindi, vederlo nella sua autentica bellezza[16].
L’uomo è il capolavoro di Dio, il microcosmo che sintetizza il macrocosmo riunendo in sé tutte le forme gerarchizzate[17]. Egli trova la chiave per accedere a questa immensa ricchezza che è il creato nella Parola di Dio, sguardo rivolto alla totalità, compendio dell’ordine e della bellezza dell’universo commisurata alla limitatezza umana[18]. «La sacra Scrittura tratta la materia più alta, è piena di bellezza, diletta l’intelletto e lo assuefà alle cointuizioni e anagogie degli spettacoli divini»[19].
CONCLUSIONE: L’UOMO BONAVENTURIANO È L’UOMO BIBLICO
Questo studio si è aperto con le parole tratte dalle Ammonizioni di san Francesco d’Assisi. Giunto alla conclusione, non posso che ribadirne la forza profetica. Forse l’aspetto del francescanesimo che più colpisce l’immaginario popolare da otto secoli a questa parte è la letizia, e certo è ciò che affascina chi qui scrive[20]. Nella nostra civiltà gaudente ed edonista si ride molto: spesso a sproposito. La gioia di Francesco è diversa, sfugge l’irenismo, l’ecologismo, le oleografie verbali. La gioia di Francesco si dispiega sul monte della Verna o nelle notti di sofferenza per le malattie che segnano il corpo del Serafico Padre e l’Ordine nato da lui. È una letizia fondata sulla roccia delle santissime parole e opere del Signore: letizia cristiana, dunque, e contagiosa[21].
La virulenza della Parola di Dio, vissuta da Francesco, è giunta a Bonaventura e ne ha forgiato tutta l’esistenza. Dalla sua esperienza di Dio viva e autentica nascono un modo di accostarsi alla Bibbia e un modo di accogliere la Rivelazione profondamente attuali. Bonaventura è un uomo in ascolto del suo Dio, che nella sacra Scrittura lo chiama all’incontro totale, coinvolgente. Si percepisce una profonda consonanza tra il clima teologico che si respira nell’opera bonaventuriana e quello che fa da sfondo alla costituzione del Vaticano II sulla divina Rivelazione[22].
Il Dottore Serafico lascia trasparire un senso di accorata gratitudine, di ammirazione rapita verso un Dio presente che agisce continuamente e progressivamente si rivela nel suo Figlio Gesù, adattando il suo parlare alla capacità dell’uomo, per farsi comprendere – lui incomprensibile – e amare, per la pienezza della nostra gioia. Parole e fatti che manifestano insieme il piano custodito dall’eternità nel cuore del Padre e portano ancora salvezza all’uomo attraverso la mediazione ecclesiale: persone storiche e concrete continuano a testimoniare l’evento della Rivelazione con lo stesso Spirito che animava i testimoni oculari, per i quali era impossibile tacere ciò che avevano visto, udito e toccato.
Bonaventura ci trasmette una visione profondamente positiva del creato, che continua a sussistere per la stessa Parola d’amore attraverso la quale venne all’esistenza, e ad essa rinvia nelle sue molteplici bellezze e nel suo ordine; e dell’uomo, che questa creazione ha ricevuto dalle mani di Dio che l’ha sottoposta alla sua responsabilità e cura. L’uomo bonaventuriano è, in fondo, l’uomo biblico, che non si possiede ma tutto ha e tutto è da Dio. Egli è fatto per Dio, il quale continuamente lo chiama a spogliarsi del nulla che misteriosamente lo seduce, per rivestirsi dell’essere donato dal Verbo della vita.
Si può comprendere l’urgenza, per l’uomo del terzo millennio, di rialzare la testa dal dramma di una vita alla deriva nel mare del senso. Fra i molti smarrimenti dei quali facciamo esperienza, si possono addurre alcuni esempi: il dolore degli innocenti e l’assuefazione al loro grido; la situazione di chi non ha niente e cerca invano di entrare nel mondo di chi ha, e quella di chi ha e cerca, qualche volta con successo, di uscire dal suo mondo a caccia di diversivi, spesso letali. Soprattutto di fronte alla morte l’uomo può perdere il timone.
Se da un lato sono insostenibili lo scetticismo e l’insensatezza radicali, dall’altro emerge la questione su chi conferisca senso, dato che l’uomo non può cogliere la totalità cui si riferisce quando pone il problema del senso, e di conseguenza non può dare senso a se stesso[23]. Mi sembra decisamente su questa stessa lunghezza d’onda l’allora card. Ratzinger nel suo intervento a un incontro in preparazione al Giubileo nella Basilica del Laterano (17 novembre 1998), riguardo all’Enciclica Fides et ratio, di Giovanni Paolo II:
Il Papa formula tre postulati della fede alla filosofia: essa deve ritrovare la dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e globale della vita; inoltre il Sì alla capacità di verità dell’uomo, da cui consegue poi, come terza, l’esigenza di una filosofia di portata autenticamente metafisica. Ciò significa a sua volta che il pensiero non può arrestarsi al fenomeno, ma deve raggiungere al di là delle apparenze l’essere stesso, deve passare dal «fenomeno al fondamento». Oggi l’impossibilità di andare al di là del fenomeno, dell’aspetto delle cose che ci appare, è divenuto addirittura un dogma. Ma non è forse l’uomo in realtà amputato nel suo essere più profondo, se si arresta solo alle apparenze e non conduce quindi egli stesso una vita apparente? In questo punto delicato del pensiero odierno si tocca direttamente il cuore del messaggio evangelico. Per il Vangelo di Giovanni nella decisione di fede cristiana si tratta proprio di questo, che l’uomo non si pieghi alle apparenze e così non eriga l’apparenza a realtà ultima, ma che al di là delle apparenze ricerchi la gloria di Dio, cioè lo splendore luminoso della verità e ad essa si rivolga[24].
L’urgenza di ricordare all’uomo la necessità di cercare una risposta alla domanda sul senso, si concretizza nell’urgenza di annunciargli Gesù Cristo. San Giovanni, nel Prologo al suo Vangelo, ha scolpito la verità straordinaria: chi accoglie il Figlio di Dio fatto uomo diventa figlio egli stesso, cioè riceve in dono il Padre. La risposta umana è decisiva e radicale: di fronte alla nostra povertà ontologica e alla nostra dignità regale ci viene offerto dal nostro Salvatore un trono glorioso fatto di legno disposto a croce.
Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento[25].
Infatti, anche nel Commentarius in Evangelium Ioannis il modello è, ancora una volta, il Verbo incarnato, centrato sulla croce: quella che, ponendo Gesù Cristo al centro di tutto, lo rende il centro di tutto.
[1] «Principium indeficiens, quia nulli operationi deest. Nam Pater sine Verbo nihil facit; infra quinto: “Omnia, quae Pater facit, haec et Filius similiter facit”. Similiter creatura facit sine Verbo cooperante nihil; infra decimo quinto: “Sine me nihil potestis facere”».
[2] Cfr. J.A. Merino, Storia della filosofia francescana, p. 69.
[3] Cfr. I. Tonna, Lineamenti di filosofia francescana, p. 75; Bonaventura da Bagnoregio, Quaestiones disputatae de mysterio Trinitatis, q. 1 a. 1 resp. (V, 49): «Est enim certum ipsi comprehendenti, quia cognitio huius veri innata est menti rationali, in quantum tenet rationem imaginis, ratione cuius insertus est sibi naturalis appetitus et notitia et memoria illius, ad cuius imaginem facta est, in quem naturaliter tendit, ut in illo possit beatificari».
[4] Cfr. I. Tonna, Lineamenti di filosofia francescana, p. 59.
[5] «Esse purissimum non occurrit nisi in plena fuga non-esse, sicut et nihil in plena fuga esse. Sicut igitur “omnino nihil” nihil habet de “esse” nec de eius conditionibus, sic econtra [sic!] ipsum “esse” nihil habet de “non-esse”»: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium, V, 3 (V, 308). Cfr. anche G. Pasquale, Il principio di non-contraddizione in Aristotele, pp. 84-85.
[6] «Secundum […] quod concernit bonum substratum, ratione illius est a Deo, sed ratione deformitatis, non».
[7] Cfr. Agostino d’Ippona, Confessioni, 7,18-22.
[8] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium, VI, 2 (V, 310) che riprende lo Pseudo-Dionigi.
[9] J.A. Merino, Storia della filosofia francescana, p. 72.
[10] «Quia habebat in ipso exemplar et rationem viventem; quae ratio dicitur vivens quia spiritualis, non materialis; quia intrasmutabilis, non variabilis; quia aeterna, non corruttibilisan Haec est ratio vitae; vita enim est actus spiritualis et continuus, ab ente quieto et sempiterno fluens».
[11] «[…] in quo requies datur intellectui, affectu totaliter in Deum per excessum transeunte»: Bonaventura da Bagnoregio, Itinerarium, VII (V, 312).
[12] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, In Ioan., I, 16 resp. 2: la «comprehensio» (che è diversa dalla «cognitio», cfr. I,12) della luce del Verbo si può avere «per inclusionem», ma in questo senso «a nullo comprehenditur»; «per apertam visionem», «a Beatis»; «per fidei et caritatis adhaesionem», «a Sanctis»; «nullo dictorum modorum a malignis».
[13] «Revera magis sentiunt, quam cognoscant. Unde Bernardus dicit, quod aliquid in se sentiebat aliquando, de quo quando volebat videre, statim amittebat».
[14] Bonaventura da Bagnoregio, Collationes in Hexaëmeron, coll. 23 n. 27 (V, 449).
[15] R. Crivelli, L’esperienza cristiana, p. 175.
[16] Cfr. J.A. Merino, Storia della filosofia francescana, p. 87.
[17] Cfr. ivi, p. 75.
[18] Cfr. Bonaventura da Bagnoregio, Breviloquium, Prol. 2,4
[19] Ivi, 3,3.
[20] Cfr. G. Pasquale, San Francesco d’Assisi. Un principio senza fine, (Mane Nobiscum 16), Lateran University Press, Città del Vaticano 2009, pp. 178-182.
[21] Cfr. G. Pasquale, Frate Francesco, (Santi e Sante di Dio 43), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009, pp. 170-176.
[22] Cfr. L. Sileo, Rivelazione, tempo e storia. Ipotesi di accostamento tra Bonaventura e la “Dei Verbum”», «Doctor Seraphicus» 36 (1989), Bagnoregio (VT), pp. 65-110.
[23] Cfr. H. Fries, Teologia Fondamentale, Queriniana, Brescia 1987, pp. 30-43.
[24] J. Ratzinger, Fede e ragione, in R. Fisichella – J. Ratzinger – J. Życiński, ed., Per una lettura dell’Enciclica Fides et Ratio, (Quaderni dell’Osservatore Romano 45), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998, p. 9-15, qui p. 12.
[25] Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 23.