È risaputo che ogni essere umano deve interrogarsi sul bene e sul male morale, e darsi dei criteri valutativi sui quali commisurare i suoi comportamenti, sia che egli conosca la Rivelazione, sia che la ignori o in buona fede la rifiuti. Pertanto accanto al dato valutativo rivelato c’è anche un dato che non proviene dalla Rivelazione; un modo di essere presente all’uomo della chiamata divina diversa dalla Rivelazione; qualcosa non di «soprannaturale», ma, appunto, di «naturale». Anche la legge naturale è, allora, un luogo di lettura della chiamata divina e in questo senso potremmo dire che anch’essa è una «forma» di Rivelazione. Essa è la presenza, come appello, all’uomo del «consilium Dei» sul mondo, sulla storia e sul singolo. Si tratta di una forma che esclude già in partenza che il singolo possa naturalmente trovarla scritta e proclamata una volta per tutte da parte di altri uomini, cosicché, in questo senso, «naturale» significa una legge diversa dalla legge «positiva umana».
La legge naturale
La legge naturale «è in primo luogo la stessa capacità dell’uomo di riflettere, ragionare sul proprio fine, sulla propria vocazione, sul significato della propria esistenza, e così stabilire quei criteri valutativi e quelle considerazioni di fatto, in base alle quali scoprire la norma per la situazione concreta […]. Per S. Tommaso essa è “participatio legis æternæ in creatura rationali”, è “impressio divini luminis”»[1]. Ciò che si instaura con l’incarnazione di Cristo è il suo modo nuovo di vivere il rapporto con Dio e la Legge. A partire da Gesù Cristo, ciò che viene da Dio sia in termini di Rivelazione – la legge morale –, che in termini di creazione – la legge naturale – non può essere subìto e vissuto solo come un complesso di precetti, osservanze passive e automatiche, bensì quale luogo di riscoperta di una figliolanza amorosa. Ciò che il cristianesimo crede è l’agire e il parlare storico di Dio nell’Antico e nel Nuovo Testamento; al centro c’è Gesù Cristo, il messaggio definitivo di Dio e il suo ingresso «umano» nella storia, non più come precetto al quale rifarsi, ma come dinamica scoperta, nel tempo, della volontà di Dio. Così il cristianesimo non si è limitato a essere un divulgatore di precetti morali per una redenzione dal mondo e dalla storia, né mai ha rinunciato ad annunciare con fermezza un agire nuovo per una salvezza del mondo e della storia.
Il termine “nomos”
A questo proposito è significativo il fatto che l’evangelista Giovanni non usa mai nel suo Vangelo il termine «nomos», se non per indicare la Legge mosaica, e ogni volta che parla della legge di Cristo usa il termine «entolè» – comandamento. Questa distinzione lessicale non è marginale. Gesù, infatti, annuncia il comandamento come «suo» e lo offre ai «suoi». Tale sottolineatura precisa che il confronto con la legge non avviene all’interno di una passiva deduzione di precetti, ma nell’intimo incontro con il Signore medesimo. Questo nuovo comandamento è la carità che è Dio stesso. Con Gesù non è abolita la Legge morale antica. Al contrario, per Gesù la nuova legge morale è lo Spirito che è in noi e che ci guida nel discernimento di ciò che concretamente è l’esercizio della carità. Gesù ricorda spesso che la legge morale nasce all’interno del singolo individuo. Anche san Tommaso e san Bonaventura sottolineano che la legge morale rivelata nel Nuovo Testamento è propriamente il frutto dello Spirito di Dio nei singoli, ovvero la legge della carità. San Bonaventura, addirittura, rispondendo alla domanda di come la synderesis riesca a scoprire la verità intesa nella legge naturale dal suo Creatore, arriva ad affermare come non sia sufficiente la sola funzione della synderesis per l’atto moralmente buono: «e benché l’uomo possa pure avere questa naturale capacità di giudicare il bene assieme alla molteplicità dell’esperienza – scrive il Dottore Serafico –, tutto ciò non basta se non si aggiunge quell’illuminazione che viene dall’influsso divino» («et quantumcumque homo habeat naturale judicatorium bonum et cum hoc frequentiam experientiae, non sufficiunt, nisi sit illustratio per divinam influentiam»: (De donis Spiritus Sancti collatio n. 15; V 496b). Anche in questo caso si tratta, ancora una volta, di una capacità naturale; però tale capacità naturale non può portare nessun tipo di conoscenza certa senza l’influsso dell’illuminazione divina («nullus certitudinaliter illuminatur nisi per ipsum (Deum)»: (De donis Spiritus Sancti collatio n. 12; V 496a). È, dunque, innanzitutto attraverso la terza via, quella soprannaturale, che, stando a san Bonaventura, si trova la chiave per la corretta comprensione della legge morale naturale poiché, con l’influsso di Gesù Cristo attraverso lo Spirito Santo, proprio questa scienza può condurre davvero all’eterna salvezza. Per ogni altro precetto specifico, invece, succede che l’uomo sia, per così dire, «costretto» a scoprirlo, con la propria ragione essendo egli creatura razionale.
Il dovere morale
La fonte oggettiva del dovere morale è, comunque, certamente esterna alla situazione e, in questa ottica, il Nuovo Testamento rifiuta ogni etica della situazione in senso stretto; ma è anche interna al soggetto che agisce in situazione. Così si può affermare che: a) per un verso l’uomo non deve che obbedire a se stesso; b) per un altro, che questa obbedienza a se stesso non è arbitrio, ma vera obbedienza di fede in Cristo Gesù. In effetti non c’è nessuna struttura metafisica che si possa svincolare da una concezione storico/salvifica. L’unica cosa che permane – dal punto di vista teologico – è che l’uomo è colui che è stato chiamato storicamente da Dio e invitato a dare una risposta. Questo essere storicamente determinato sulla base di parola e risposta è la sua NATURA e fonda la sua irripetibile dignità e la sua moralità. Egli deve realizzarla in obbedienza e responsabilità storiche davanti a Dio. (La seconda parte verrà pubblicata venerdì prossimo).
[1] E. Chiavacci, Teologia morale.I. Morale generale, Cittadella Editrice, Assisi (PG) 1983, pp. 164-165