Se anche la delimitazione del contenuto della storia della salvezza appare un grosso vantaggio per concepire una teologia della storia, rimane tuttavia ancora da chiarire la natura di tale storia della salvezza, poiché è proprio di essa, a dire di Daniélou, offrire gli stessi caratteri dei modi di agire di Dio. Da essi si può, innanzitutto, inferire che la verità di Dio coincide con la sua fedeltà, profondamente contenuta ed espressa in locuzioni quali bārā’ (parola) e berîţ (alleanza); inoltre si può capire che la giustizia di Dio (şādāq) appare nel modo con cui egli mantiene fede agli impegni presi e realizza le sue promesse, ossia collima con l’amore che è fedele a se stesso. Infine, si chiarisce che questo amore di Dio appare talvolta come collera[1], vale a dire come l’irresistibile intensità dell’esistenza divina[2]. Nella storia della salvezza, insomma, la vera identità di Dio è il fatto stesso che egli venga.
È interessante notare come il Daniélou individui la risposta degli uomini, conseguente alle reiterate venute di Dio nella storia, proprio nel Cantico della vigna di Is 5,1-5, nel quale appare che tutta la storia del mondo prima di Mosé è presentata in funzione di Israele, in quanto sua preparazione provvidenziale, come appare anche in Os 9,10[4]. In rapporto all’ultima venuta di Cristo, Figlio di Dio padrone della vigna che lo manda nella sua vigna, si può a buon diritto osservare che tutto l’Antico Testamento non è, in un certo senso e dal punto di vista del popolo di Dio, che un albero selvatico; fino alla venuta dell’eterno Figlio di Dio, la vigna umana non ha dato a Dio frutti che egli possa davvero sperare e gustare[5]. Ma attraverso la passione e la risurrezione di Cristo nascerà la vigna autentica perché Dio, al di là di Israele, sta per piantare un’altra vigna, la vigna della Chiesa il cui ceppo è lo stesso Gesù Cristo (Gv 15,1-8)[6].
Cristo è dunque la vigna autentica, la vittoria perfetta di Dio il quale, coronando gli «sforzi» fatti da Dio dall’inizio del mondo, certifica che tutto il resto era soltanto una preparazione[7]. Sembra di poter dire, dunque, che la vera natura della storia della salvezza è individuata dal Daniélou dal fatto che egli si accorga della progressiva concentrazione della distensione dei magnalia Dei narratici dalla Sacra Scrittura, fino all’apice raggiunto nell’incarnazione di Gesù Cristo. Daniélou prende atto, insomma, di una concentrazione cristologica, espressa ed esibita nella confessione di Calcedonia (451)[8] e nella sua chiarezza dogmatica: la definizione della duplice natura del Cristo viene di fatto a illuminare tutta la teologia della storia[9] e questo sotto almeno tre ampi profili.
Innanzitutto, ci sono delle conseguenze nella comprensione della tempo-ralità. Come aveva già ben visto sant’Ireneo, se l’Antico Testamento si configurava in quanto annuncio di ciò che doveva accadere in un tempo venturo, il Nuovo Testamento pone continuamente, mediante l’ausilio di particelle temporali avverbiali, l’accento sul presente[10] e particolarmente sull’avveramento nel presente di ciò che era stato annunciato nel passato[11]. Il Nuovo Testamento è l’affermazione di una presenza, del Dasein (Lc 23,43; Gv 1,29; Ap 5,6-7; 1Pt 1,19-20; Eb 1,2; 9,26 Gal 4,4; Ef 1,10), cosicché, con la venuta di Cristo, «i tempi ultimi» annunciati dall’Antico Testamento sono adesso arrivati[12]. Egli gode, per così dire, di una doppia linea di continuità, una teologica, poiché le opere che lui compie rientrano nella storia delle azioni divine, e un’altra genealogica poiché secondo il Nuovo Testamento egli è Figlio di Davide. L’unità tra le due è posta in essere, interrogativamente, già da Gesù stesso nella domanda fatta ai farisei in Mt 22,45: «se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?»[13].
Secondariamente, vi è una conseguenza di ordine escatologico. Anche in questo caso è la chiarezza dogmatica di Calcedonia, secondo Daniélou, che viene incontro al teologo, per cui il semantema in essa espresso[14] indica, nel contempo, perfezione da raggiungersi alla fine dei tempi e non più soltanto il termine di quell’unione perfetta che costituiva il finis dell’incarnazione stessa: l’unione mirabile della divinità all’umanità, nell’unica persona del Verbo, per la divinizzazione dell’uomo[15]. Pertanto, la divinizzazione dell’uomo costituisce il fine al quale Dio lo destina e Gesù Cristo è la primizia dell’umanità divinizzata[16]. Più precisamente, l’unione ipostatica opera innanzitutto la fine della crea-zione per quanto riguarda la divinizzazione dell’uomo e, quindi, la realizza anche in quel che riguarda la glorificazione di Dio: Cristo, infatti, glorifica Dio come vittima e come sacerdote nella sua carne umana e come sacerdote offre l’omaggio di una adorazione perfetta (Eb 5,15), esattamente dal momento della sua incarnazione, né prima, né dopo[17].
Ne segue che la definizione di Calcedonia non stabilisce solamente il carattere perfetto dell’unione ipostatica, ma anche il suo carattere escatolo-gico: una volta unite le due nature, benché sussistano nella loro reciproca integrità, non possono più essere separate e tale unità costituisce un’alleanza per sempre acquisita; a livello di teologia della storia, ciò significa che in questo modo la storia conserva per sempre la sua consistenza nella realtà in cui essa ha effettivamente raggiunto il suo compimento[18].
Sotto un terzo profilo vi sono, infine, delle conseguenze a livello ecclesiologico. Se, infatti, la persona di Cristo è il terminessoluto della storia, resta però vero che essa non ne è la fine visto che egli è anche il primogenito della nuova creazione; vale a dire Cristo non si situa solamente tra l’alfa e l’omega ma, in un’altra retro-prospettiva. Questo, evidentemente, ha a che fare con il problema della determinazione temporale del ritorno finale e definitivo di Cristo, il quale assume, biblicamente, due possibili soluzioni: esso può essere condizionato dallo sviluppo dell’evangelizzazione della Chiesa verso i pagani e Israele[20], oppure non condizionato assolutamente da nulla[21]. A queste due soluzioni, i Padri[22] ne scorgevano addirittura una terza, quella di Ippolito (morto nel 235)[23]. Eppure, queste due prospettive teologiche, non sono del tutto opposte, bensì si contraddistinguono per la loro complemen-tarietà, proprio per l’analogia a quanto si è già detto circa il dogma calcedonese:
Così come l’unione ipostatica, proiettando la sua luce nel passato, ci permetteva di vedere in qual modo conciliare le due linee che dall’Antico Testamento convergevano verso il Cristo e che trovavano il Lui il loro accor-do, allo stesso modo proiettando la sua luce sull’avvenire, essa ci indica in qual modo si debba interpretare la storia dell’umanità durante l’attesa della Parusia. Questa storia è innanzitutto quella delle grandi opere di Dio, che continuano nella Chiesa con le azioni sacramentali, prefigurazioni e prepara-zioni degli avvenimenti escatologici della fine. In questo senso la storia della salvezza, dalla creazione alla Parusia, ci appare come quella di una presenza di Dio fra gli uomini, ove l’Incarnazione è la vetta e la Parusia sarà la fine. E questa storia non ha altra legge che la sovrana saggezza e la libertà di Dio[24].
In questo senso, Daniélou formula quasi il principio che, in vista della liberazione finale, la storia attuale assuma un suo significato nella misura in cui in essa la salvezza finale non viene operata nell’uomo senza l’uomo[25].
[1] Si nota, di passaggio, come il Daniélou combini l’identità di Dio in quanto con il significato biblico della collera divina, così frequentemente riportato dalla Sacra Scrittura, sia antico- che neotestamentaria. La venuta di Dio concerne il cosmo tutto intero (Ab 3,1-11) perché Dio, con la sua collera, è capace di sconvolgere tutti e quattro gli elementi della realtà che lui stesso ha creato — giacché egli dispone liberamente della sua creazione — cosicché la Scrittura testimonia una rifusione degli elementi creati come caratterizzante i giudizi di Jahwé (Sap 19,18; Dn 3,26-45; Ap 16,1-10; 6,1-8). In questo modo, attraverso la sua azione creatrice, si conosce la potenza sua e la sua saggezza; attraverso la sua alleanza si ri-conosce la sua fedeltà e la sua tenerezza; attraverso i suoi giudizi si conosce la sua giustizia e la sua collera. Sotto questo profilo, conviene porre in chiara luce il significato nella storia del giudizio divino: quello che all’uomo appare come una collera che viene a sconvolgere le sue prospettive, è, invece, l’espressione di un misterioso amore attraverso il quale Dio realizza il suo disegno di salvezza. Tale paradosso della collera divina trova la sua risoluzione nella croce di Gesù Cristo, il quale compie le opere della potenza di Dio. La morte di Cristo, dice Daniélou, «ha soddisfatto le esigenze della collera perché la morte di Cristo ha soddisfatto le esigenze dell’amore»: MH, 181=163.
[2] Cf MH, 169-170=153-154.
[3] Il riferimento di Daniélou al venire di Dio negli eventi storici, i quali sono anche le sue opere di grandezza, va capito sempre come arrivo della Trinità in azione nel mondo. Il Dio che interviene nella storia della salvezza è il Dio tripersonale: cf J. Daniélou, Dieu et nous, 147-148; 157-159; 167-174.
[4] Cf MH, 186-194=168=176.
[5] Cf MH, 195=177-177.
[6] Si può allora capire, in quest’ottica, la personale affermazione di Daniélou che «la Parusìa non potrà venire se non quando tutte le grandi civiltà saranno state evangelizzate e si saranno compiute nel cristianesimo portando il loro grappolo di santi. Siamo solo ancora all’ora sesta. Sulla piazza vi sono ancora operai che attendono: per essi l’assunzione, la chiamata all’alleanza non verrà che all’ora nona e all’undecima»: MH, 198=179, chiamata che viene conferita per l’appunto in tempi successivi (Mt 20,15).
[7] Cf MH, 196-199=177-180.
[8] DS, nn. 301-302, 168-169. L’«approccio calcedonese» in teologia della storia fu successivamente presentato e ampiamente sviluppato nel 1954 in J. Daniélou, «Christologie et eschatologie», 268-286, benché sia rimasta immutata la sostanza della sua intuizione.
[9] Tuttavia, Daniélou è consapevole come la definizione di Calcedonia fosse più preoccupata di affermare i princìpi costitutivi della cristologia che il suo significato nella storia della salvezza. Infatti, compare nei primi quattro secoli un processo di allontanamento dalle preoccupazioni escatologiche tipiche della primitiva comunità cristiana, quali, per esempio, quella innescata dal presunto ritardo della parusìa. Lo stesso Simbolo apostolico ratifica tale processo, mediante la scomparsa della menzione «ultimi tempi» a proposito dell’incarnazione, benché ciò facesse parte del kérygma primitivo e lo si ritrovasse almeno fino al IV secolo:l 4,4; 1Pt 1,20 e Les Constitutiones Apostoliques [VII 41, 3], III, 99). Ciò nonostante, Daniélou è convinto che «solo il dogma di Calcedonia permette di trattare una vera e autentica teologia della storia, rendendola equidistante da due pericoli sempre onnipresenti: il perdersi in un puro divenire, oppure il dissolvimento in un ideale a-temporale»: MH, 202=182-183, e cita l’ebionismo, lo gnosticismo, il nestorianesimo e il monofisismo come loro ultime vestigia.
[10] Cf J. Daniélou, «Saint Irénée et les Origines» 227-231. Cf anche Irénée de Lion, Contre les Hérésies, l. 4, c. 34, n. 1, II, 847-849. È interessante questa precisazione del nostro autore: «Théophile d’Antioche. Celui-ci est un des premiers auteurs chrétiens à s’être intéressé à la théologie de l’histoire. Et il agira en ce sens sur Irénée» J. Daniélou, Théologie du judéo-christianisme, 364.
[11] Si può allora inferire, secondo Daniélou, che la nozione di «storia» è nata con Ireneo (130-200 ca.), ed è stata elaborata proprio in contrapposizione ad alcune aporie ermeneutiche in teologia della storia, degenerate poi nell’eresia. «Irénée enfin résolut magistralement la question en inventant pour ainsi dire la catégorie d’histoire, c’est-à-dire d’une réalité à la fois continue et discontinue où il y a, entre le passé et l’avenir, à la fois une différence qualitative véritable et en même temps tout un ensemble de corre-spondances et de préfigurations»: J. Daniélou, «Christianisme et histoire», 170. Si veda anche G. Lorizio, «Rivelazione come “comunicazione”», 221-222.
[12] MH, 203-204=183-184. Il Dasein della presenza di Dio nella storia è rappresentato appropriatamente e biblicamente nella storia con l’immagine del Tempio: «Ainsi le christianisme rend-il à l’histoire son mystère, en y montrant la Présence de Dieu. Nous l’avons dit de l’espace à propos du Temple cosmique. […] Il est le lieu d’une presence, la Maison de Dieu. Il en est de même de la durée»; J. Daniélou, Le signe du Temple, 39. Il corsivo è nostro.
[13] Cf MH, 206-208=186-187.
[14] Afferma il Concilio di Calcedonia: «Seguendo i santi padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità». Nella traduzione latina si legge: «Sequentes igitur sanctos Patres unum eundemque confiteri Filium Dominum nostrum Iesum Christum consonanter omnes docemus eundem perfectum in deitate, eundem perfectum in humanitate», e nell’originale greco:. 301, 168-169, con nostre sottolineature.
[15] Cf J. Daniélou, «Transcendance et Incarnation», 93-94.
[16] Cf MH, 210-211=190-191.
[17] Fu proprio la dottrina eretica di Eutiche e la sua rischiosa aporia di far assorbire la natura umana nella natura divina del Verbo, a compromettere, secondo il Daniélou, il carattere escatologico del dogma dell’incarnazione. Esso afferma, contrariamente e di fatto, che la natura umana del Cristo conserva eternamente i caratteri propri dell’umanità pur restandone (non divenendone!) trasfigurata, evitando, in questo modo, qualsiasi pericoloso e possibile tratto di panteismo. In quel dogma, quindi, la creazione sussiste eternamente nella forma definitiva da essa attinta nell’unione ipostatica della natura umana con quella divina: cf MH, 213-214=192-193.
[18] Cf MH, 214=193-194, e J. Daniélou, «Geschichtstheologie», 794.
[19] Cf J. Daniélou, «Christologie et eschatologie», 280-281, e MH, 215=194.
[20] È Gesù stesso che, nel discorso escatologico, annuncia i segni che precederanno la parusìa (Mt 24,14) e san Paolo, in Rm 11,15, sembra indicare che la conversione delle nazioni sarà seguita da una nuova tappa nella reintegrazione di Israele. Nella 2Pt 3,9, di fronte al non facile problema della dilazione della parusìa, si afferma addirittura che tale ritardo è benevolmente previsto dalla «pazienza» divina che non vuole che alcuno perisca (si veda anche 2Ts 2,6; Ef 4,13): cf MH, 216=195.
[21] L’assoluta incondizionatezza dipende solamente dalla sovrana libertà di Dio, ed è pura attesa di un evento che la situazione presente dell’uomo non può preparare in alcun modo. Il giorno del Signore, dice infatti la Scrittura, «arriverà come un ladro», all’«improvviso» (2Pt 3,10; Mt 24,43-44; Lc 24,34)) e il suo arrivo dipenderà soltanto dalla scelta di Dio. Una convinzione rimane ferma per Daniélou: se anche si trattasse della prima soluzione, rimane ancora da chiarire se tale sviluppo della Chiesa — e non il progresso della civiltà o l’evoluzione della storia umana — consista in un effettivo pro-gresso della Chiesa o in una finale recrudescenza del mistero del male e dell’iniquità: cf MH, 217=196.
[22] Ireneo e Gregorio di Nissa, per esempio, optano per la prima soluzione: poiché Dio ha preparato con il monoteismo l’umanità alla venuta di Cristo nell’incarnazione, che si tratti della prima o della seconda parusìa, gli ultimi tempi coincidono, dunque, con una maturità dell’umanità. Talvolta, però, tale maturazione progressiva si configura come una cristallizzazione del mistero del male giunto al colmo, quasi ad attendere che tutte le forme del vizio si siano espresse affinché il rimedio possa essere inoculato alla totalità stessa del male, a tal punto che lo sviluppo della storia si colloca all’interno di una dialettica di progresso e decadenza. Diversamente, Leone Magno (papa dal 440 al 461), benché accenniall’impenetrabilità e all’imprevedibilità dei decreti della saggezza divina in merito ai tempi dell’incarnazione, induce a pensare che non esiste nessun criterio che ci consenta di calcolare in anticipo il tempo del ritorno di Cristo, essendo tali fattori — sia per la prima, che per la seconda venuta di Cristo — appartenenti a un carattere permanente dell’atteggiamento escatologico: cf MH, 219=197-198, e J. Daniélou, «Saint Irénée et les Origines», 227-231.
[23] Daniélou la definisce come «terza soluzione» perché non è contemplata dal dato scritturistico né dell’Antico né del Nuovo Testamento e perché sembra più che altro una serie di congetturate speculazioni, per cui la parusìa apparirà legata a un certo grado di sviluppo della storia umana, in modo da calcolare, quasi, la data della fine del mondo. Ippolito la connette, per esempio, alle settimane d’anni di Daniele o ai sette millenni: cf J. Daniélou, «La typologie millénariste», 1-16.
[24] MH, 221=199-200. Le due linee a cui accenna Daniélou sono senza dubbio queste: la prima è quella escatologica e trascendente che culmina nelle Apocalissi; essa fa conoscere Dio non nella sua essenza, ma nella sua presenza; la seconda ci presenta un uomo (Gen 12,3) della fine dei tempi (Dt 18,13; 2Sam 7,16) e concerne, pertanto, il Messia. Cf anche MH, 203-208=183-188.
[25] Anche l’uomo, dunque, è parte attiva della storia della salvezza. Occorre, tuttavia, escludere ogni forma di occasionalismo teologico e interpretare l’attività dell’uomo nella storia sacra nel senso di una cooperazione — distinguendola da quella che egli sviluppa nella storia profana — e nel senso di uno sforzo per conseguire, nel tempo, la pienezza della libertà interiore, mediante le risposte alle iniziative del Dio vivente nella storia: cf J. Daniélou, «Christianisme et histoire», 167-170; Id., Approches du Christ, 137-138, e Id., Sacramentum futuri, 21-23,