È già sufficientemente chiaro, oramai, che la durata esprime l’attualità dell’essere nell’istante presente – la permanenza nell’essere – perché essa si fonda sul grado di attualità in modo che quanto più l’essere è perfetto, tanto più perfetta è la sua durata[20]. Rapportato all’esistente umano, dunque, l’istante è la misura del soggetto esistente, mentre la durata riguarda in modo specifico l’attualità dell’essere, cosicché il divenire successivo dell’essere creato è un indice di dispersione ontologica, di limitazione dell’essere e, come tale, si connette alla condizione di contingenza propria della creatura: l’essere finito, a motivo della sua alterità creaturale, non è in modo assoluto, ma esiste (ex–sistit)[21].
La passività
Questa passività, che può ben considerarsi la ragione ontologica fondamentale della soggezione della creatura alla categoria esistenziale del moto e del tempo, è la ragione metafisica fondamentale per la quale l’uomo non è soggetto alla durata permanente – nel senso, però, di come è stata fin qui intesa – ma all’istante e alla successione degli istanti. È quest’ultima, dunque, che tocca tutta la sfera operativa dello spirito creato, visto che esso non può essere perfetto nell’ordine naturale, mediante una sola azione, ma soltanto attraverso un succedersi di azioni. Restando fedelmente aderente all’insegnamento del Dottore Angelico in proposito, riflessione filosofica e teologica si combinano perfettamente per dedurre, innanzitutto, la differenza metafisica tra l’essere creato soggetto al tempo, Dio al di sopra del tempo e l’essere spirituale creato che si trova in una condizione intermedia[22]. La seconda deduzione è, comunque, assai più interessante poiché esplicita il senso metafisico della durata temporale, legandolo strettamente all’atto libero compiuto dall’uomo. La creazione comporta necessariamente un intervallo metafisico tra il momento in cui l’essere finito è dato a se stesso e quello in cui per il suo atto libero, determina il significato della sua esistenza. Tra questi due momenti si svolge tutta la storia. L’essere creaturale è caratterizzato da questa duplice relazione metafisica: «exitus a primo principio» e «reditus in principium». La durata creaturale, a sua volta, è compresa in questa duplice relazione di origine e finalità: è un presente che si estende tra queste due relazioni che l’attraversano e lo compenetrano, è un presente che incessantemente viene (origine ab alio) e che continuamente va (reditus). Questo passaggio teoretico risulta necessario: perché la durata, che inizialmente la filosofia attribuisce esclusivamente all’essere perfetto sempre presente a se stesso, esprime adesso l’aspetto più attivo dell’essere creato che, in quanto tale, è dinamico e storico. Fondare metafisicamente la durata che l’essere umano misura, significa, insomma, attribuire a quest’ultimo la categoria di partecipazione, come creatura, a quel livello ontologico che spetterebbe alla sola eternità presente in Dio e che sta all’origine del tempo creato[23]. Detto in altri termini, dimostrare che oltre al tempo esiste l’eternità senza il ricorso alla «distanza» creaturale – e quindi alla Rivelazione – risulta al filosofo alquanto improbo.
La relazione dell’eternità al tempo è «non ex aequo»
La verità basilare e l’ottica ermeneutica appropriata di ogni riflessione filosofica sul tempo – che sia propriamente tale – afferma, pertanto, l’assoluta trascendenza dell’eternità sul tempo, trascendenza corrispondente a quella dell’essere, poiché l’eternità sta al tempo come l’essere divino sta a quello creato[24]. Questa trascendenza corrisponde alla distinzione qualitativa irriducibile dei due valori di eternità e tempo; essa, poi, non è solamente una mera esigenza filosofica, ma anche biblica, poiché l’idea della trascendenza divina, che domina nella Sacra Scrittura, può essere integralmente rispettata solamente a questa condizione: che sia salvaguardata l’irriducibilità dei due piani. Questa nostra sottolineatura – che in questo caso si stacca nettamente da altre interpretazioni teologiche o filosofiche protestanti[25] e ortodosse[26] – deve essere capìta alla luce di ciò che è stato fin qui dimostrato, ossia come una necessaria conseguenza della struttura metafisica dell’essere creato e, tuttavia, essa non implica che tra il tempo e l’eternità sia inconcepibile qualsiasi genere di riferimento. Quest’ultima idea è contraria a una sana metafisica, parimenti a quella che non prevede alcuna discontinuità tra eternità e tempo perché, quest’ultima, introduce un errore nominalistico nel valore della durata. Come avviene, invece, per tutte le perfezioni che seguono la fondazione sostanziale delle cose nell’essere, la partecipazione della durata va considerata attraverso la partecipazione dell’essere e non è un’immediata derivazione dall’eternità divina, poiché Dio non crea e poi muove, ma con un unico influsso causale pone la creatura nell’essere e nel movimento, quindi nel tempo[27]. Con questa constatazione inseriamo, quindi, l’altra rilevante affermazione che il rapporto metafisico di simultaneità ontologica tra qualsiasi istante del tempo e l’istante unico di eternità non è un rapporto reciproco adeguato perché tutta l’eternità – alla quale ogni istante del tempo è presente – non può essere frazionata e l’attimo del tempo non ricopre, evidentemente, la ricchezza dell’istante eterno, che è semplice. In altre parole, pur essendoci presenzialità ontologica tra il «nunc temporis» ed il «nunc aeternitatis», non c’è parità di misura: simultaneità non vuol dire contemporaneità, con buona pace di S. Kierkegaard. Un’importante conseguenza di questa presenza del tempo all’eternità «per eminentiam aeternitatis» è costituita dal fatto che tutti gli istanti del tempo sono egualmente o simultaneamente presenti all’oggi di eternità (simultanei all’eternità, ma non contemporanei tra loro). Si può dire con verità, ex parte aeternitatis, che il futuro è già creato ed è fisicamente presente a Dio, come lo è ancora ciò che è passato. La relazione eternità-tempo fondata sul rapporto creativo è, dunque, una relazione «non ex aequo». La chiarezza raggiunta con questa convinzione non deve, però, indurre al facile cambio di prospettiva, che può determinare false obiezioni, intendendo in modo parallelo la compresenza delle due durate, giacché esse lo sono soltanto in forma di trascendenza: ciò che è futuro, resta dunque futuro nel tempo, benché dal punto di vista dell’eternità, ovverosia da parte dell’atto creativo divino, scompaiano di fatto le distinzioni del tempo[28], per esempio, tra il prima e il poi.
Non vi è differenza tra tempo ed eternità senza il fondamento biblico
Un interrogativo che potrebbe sporgere alla fine di queste postille è il seguente: come si costituisce nell’esistente – e in ultima istanza – la differenza tra il tempo e l’eternità. È già stato osservato all’inizio che nell’orientamento dinamico e responsabile verso il futuro appannaggio della coscienza storica della tardomodernità, l’uomo è consapevole del fattore concomitante del divenire storico, costituito per una certa parte dal connubio delle cose materiali con l’azione spiritualizzatrice dell’anima umana. Richiamandosi maggiormente, in conclusione, all’insegnamento di Agostino d’Ippona, si può affermare che la presenza della persona umana e dei valori morali nel tempo[29] specifica il senso storico delle cose, determinando altresì la differenza tra il tempo ed eternità. La presenza di una personalità morale nel succedersi delle forme materiali in divenire è, dunque, in sostanza l’anima regolatrice del tempo storico, la coordinata che eleva il senso filosofico del tempo al grado di accadere storico e, quindi, di eternità. Libertà, discontinuità, imprevedibilità in modo certo e determinato, non reversibilità, sono le note caratteristiche di questo concetto particolare di tempo storico.
Il passaggio dal tempo all’eternità avviene, e soprattutto accade, pertanto, grazie all’apporto di quel fattore particolare che spetta solamente alla coordinata antropologica innescata dalla libertà umana – ciò che Tommaso d’Aquino chiamava l’«atomo di libertà» –, visto che gli accadimenti temporali e perfino i fatti biologici, anche se il loro soggetto è l’uomo, non sono ancora per sé storia[30]. Se tale coordinata antropologica viene, inoltre, maggiormente esplicitata, emergono immediatamente due altre conseguenze: innanzitutto, si palesa che l’unità fisica del genere umano, fondata sulla trasmissione genetica della natura, è la prima radice della temporalità sociale della storia umana, iniziata in Adamo, dal quale parte la storia. Secondariamente e conseguentemente, è inconfutabile la constatazione che la visione storica delle cose è di origine giudaico-cristiana, visto che solo dalla Rivelazione si viene a conoscenza che la persona del primo uomo ha avuto la capacità di creare una frattura nel tempo della specie, ferendo liberamente la natura e introducendo il germe del male nella storia[31].
Queste due implicanze, che come si può facilmente notare, sono dedotte dai dati rivelati della Sacra Scrittura (Gn 3, 6-7; 1Cor 15,21) e posseggono una dichiarata determinazione cristiana perché l’atto massimo di libertà che ha reso possibile il passaggio dal tempo all’eternità è avvenuto nel tempo dell’incarnazione di Gesù Cristo, eterno Figlio di Dio. Se, infatti, la colpa di Adamo ha alterato il senso sociale del tempo storico mediante una lacerazione dell’essere con l’effetto negativo di una dispersione nel tempo, a quest’opera disgregatrice del peccato si contrappone l’opera di Dio che ricostruisce nella storia stessa il cammino verso il destino eterno dell’uomo, giacché è sempre attraverso il tempo che l’uomo si salva o si perde per sempre[32]. Per quanto «laico» possa sembrare il rimando, torna forse molto a proposito la citazione di un altro passo di quella famosa lezione alla quale partecipai quale giovane studente il 18 Ottobre 2001, citata all’inizio di questo mio intervento:
Quale esempio migliore di questa sostanziale omogeneità di tecnica e religione del passo evangelico – uno dei più belli, e anche dei più significativi in questo senso – dove Gesù dice che «chi ha fede muoverà le montagne»? Dove la fede è il mezzo affinché le montagne possano essere mosse. La montagna è sia la montagna alla quale il credente potrà dire «togliti di qui e gettati nel mare», ma è anche la montagna che consiste nella nostra esistenza e rispetto alla quale il fedele può dire: tu che gravi sull’esistenza dell’uomo, togliti di qui affinché l’uomo raggiunga la vita eterna, la beatitudine eterna. La fede salva. «Qui crediderit salvus erit – si legge alla fine del Vangelo di Marco – qui non crediderit condemnabitur [Marco 16,16]: chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato. Salvezza vuol dire liberarsi dall’angoscia del divenire, arrivare alla pace eterna, alla quiete eterna[33].
In realtà, è solo con il tempo salvato che, in definitiva, si approda all’eternità.