Come ogni venerdì torna “Lettere dal convento”. Si tratta delle riflessioni e dei pensieri di fra’ Gianluigi Pasquale, Frate Minore Cappuccino Veneto.
Lettere dal Convento
All’inizio di questo secondo millennio sono state rivolte alcune positive provocazioni al cristianesimo. Il filosofo di Milano Umberto Galimberti, per esempio, ebbe ad affermare che «il cristianesimo scomparirà» (Umberto Galimberti, «Nessun Dio ci può salvare», MicroMega. Almanacco di filosofia, n. 2 (2000), pp. 187-198), paventando, addirittura, l’estinzione di qualsiasi religione. Alcuni anni dopo scrisse anche un volume dal titolo piuttosto emblematico «Il cristianesimo. La religione dal cielo vuoto» (2015). L’amico filosofo, in realtà, intercettava e intercetta parecchie domande che sono presenti nel nostro presente e nel nostro pensiero: cosa sta accedendo al Cristianesimo in Europa e nel mondo Occidentale? Era seria la domanda di Gesù quando si chiese: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà ancora fede sulla terra»? (Lc 18,8). Sta accadendo qualcosa alla Chiesa, che ha il compito di trasmettere la fede, se fatica così tanto a farlo?
Le due Città, celeste e terrena
Appena dopo l’ascesa al Cielo di Gesù risorto i primi cristiani erano del tutto convinti che di lì a poco il Cristo glorificato sarebbe tornato a giudicare il mondo (Mc 14,61-62) e che questo giudizio sarebbe coinciso con la fine di tutte le cose (Ap 20,11-15). Restava, dunque, poco tempo per convertirsi e credere al Vangelo. Il che significava per i cristiani vivere pensando solo «alle cose di lassù, non a quelle della terra» (Col 3,2). Dopo oltre duemila anni, invece, non è successo (ancora) nulla, cosicché il “ritardo” dell’ultima venuta del Signore Gesù ha aperto un altro interrogativo: dobbiamo ancora attenderlo nella nostra vita? Il che significa: negli anni della nostra esistenza? E, se non serve attenderlo, perché dovrei pensare alle cose di lassù, e non a quelle della terra? A motivo di questa dilazione, nella coscienza dei cristiani è successo che, pur pensando alle cose di lassù – alla “Gerusalemme celeste” –, essi si sono impegnati sempre di più e meglio per le cose della terra, per la “Gerusalemme terrena”.
Le parole del vescovo Boussuet
Fino a far scrivere al vescovo cattolico francese Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704) che città celeste e terrena si sovrapponevano l’una all’altra e che, anzi, coincidevano con la Chiesa cattolica. Fu questo l’inizio dell’attuale “secolarizzazione”. Il vescovo francese non era ingenuo: si era accorto che tutta l’Europa era cristiana e che, addirittura, perfino il nuovo mondo, le Americhe, lo erano diventate. Le sue conclusioni, però, non furono del tutto perspicue. Se Agostino di Ippona (354-430), infatti, si era ben guardato dall’affermare che le due città coincidono, Bossuet arrivò, quasi, a insinuare come non ci fosse, poi, così bisogno di evangelizzare ancora. Nel mondo intero – così lui interpretò – si diffuse l’annuncio del Vangelo, per cui era sufficiente rafforzare la Chiesa di quaggiù per “assicurarsi” quella del Cielo. È un po’ quello che abbiamo pensato fino all’altro giorno creando “fortezze” ecclesiali e dimenticandoci che l’unica vera ragione per cui un cristiano vive sta nell’annunciare il Regno di Dio (Mt 16,15), nel pregare il Padre (Mt 21,22) e nel praticare la carità (Mt 25,46).
Il per sempre presente nella liturgia
La Chiesa, cioè l’insieme dei cristiani, per essere tale, non può soltanto pensare alle «cose di quaggiù». Perde di credibilità perché tradisce la propria esistenza. Ovvio, la Chiesa è terrestre, ma solo per essere “celeste”, per riempire quel Cielo che, altrimenti, rimane vuoto. La nascita degli Ordini religiosi, dei monaci, dei frati e delle suore, servì e serve solo a questo: a ricordare a tutti i cristiani che si lavora nel tempo con l’intento di “investire” nell’eternità e per l’eternità. È nella liturgia che noi sperimentiamo tutto ciò: quando, pur celebrando in una “struttura”, nelle preghiere, nei canti e negli altri fedeli noi assaporiamo il “per sempre” di Dio, e che Dio è.