Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Beato Tommaso da Olera
Altrove, invece, prevale quella «disinvoltura cappuccinesca» che tanto piaceva, nei suoi frati, al Manzoni, ed è nei momenti in cui Fra Tommaso disegna rapidi quadri di vita di corte, sempre come metafora del rapporto tra Dio e le anime purificate.
Ed acciò sappi in che modo il corpo possa gustar cosa spirituale, sendo che è cibo dell’anima ed i cibi del corpo sono le cose terrene, ed in che modo il corpo gusti e mangi cibi dell’anima, con un essempio te lo dichiararò. In quel modo ch’un paggio serve alla mensa d’un principe, questo servitore porta in tavola cibi e beveraggi delicati; e mentre porta detti piati al prencipe, alcuna volta questo servo gusta qualche boccone; nel fine del mangiar del suo signore va ancor lui a cibarsi dei avanzi ch’avanzano al principe, gustando ancor il servo de’ cibi del patrone. Così l’anima è quel principe, il servo è questo corpo soggetto all’anima ed allo spirito, le vivande preziose sono li divini misteri: l’anima, sollevandossi in contemplazione, mangia e gusta quelle delicate vivande postali da Dio avanti, nella mente sua contemplando e profondandossi in quelli alti e divini misteri. (Scala, 219)
Suole alle volte ben spesso intravenir ch’un principe, innamorandossi d’una poverella giovenetta di basso stato, la prende per sua sposa; onde, essendo usa a lavorar la terra, a vestir poveramente, per virtù del matrimonio diviene nobile e ricca, si veste di riche vestimenta, s’adorna di preziose gioie; ed ove prima conversava con genti plebei, ora conversa con nobili, con grandi; ove prima se ne stava in povera villa, ora se ne sta in una ricca città, in un sontuoso pallazzo, godendo, rallegrandossi delle ricchezze, dei tesori del suo sposo, e quello che è del sposo è anco della sposa. Così apunto fa Iddio con l’anima. (Scala, 199)
Altro registro, infine, deriva dalla sua stessa frequentazione delle corti e l’immagine è davvero di grande semplicità e modestia.
E per dir dell’amor dell’anima che porta a Dio, io l’assomiglio ad un re, il quale se ne sta in una ricca e nobil città, rinchiuso in un reggia e sontuoso pallaggio ripieno di vaghi ed odoriferi fiori con soavi e saporosi frutti, essendo questo pallaggio ripieno di tesori e di richezze; ove se ne sta questo re accompagnato da baroni, da principi, da dame. E sta godendo in quel reggio pallaggio ogni contento ed allegrezza; e se andasse uno alla porta di detto pallaggio per entrare, di certo che le guardie vorrebbono sapere chi sii questo personaggio; e che dimandando a questo tale chi è, dicesse: «Io sono un grand’amico del re, e l’amo come la mia persona stessa, e molto più di me incomparabilmente», e che fusse rifferito al re che è il tale, e che questo re amasse ancor lui questo forastiero: di certo che saria introdotto alla persona del re, ove sarebbe molto accarezzato ed amato, e li sarebbe fatto vedere quelle ricchezze, tesori e grandezze, ove sarebbe menato a vedere quelli vaghi e bei giardini accompagnato da quelli principi e dame, anzi dall’istesso re: ove goderebbe l’amico del re in parte delle ricchezze e bellezze sue. Ma questo amico, non essendo della famiglia del re, dopo l’aver goduto della gloria e ricchezze del re, si parte, restando l’amico privo di tal gloria. Nientedimeno, per la stretta amicizia che ha col re, va frequentemente ritornando al reggio pallaggio, godendo della grandezza e ricchezze de l’amico re. (Scala, 239)
Il buon senso contadino
D’altra parte, il suo solido buon senso contadino lo conduce, a volte, a impeciarsi in questioni di vera «lana caprina».
Si parte Maria con Gioseffo con quella puoca provisione che portava per la nassita del re del cielo. Mi dà a credere che il Santo Gioseffo, vedendo Maria gravida del figliol di Dio, gli pigliasse, per il suo cavalcar di Maria, un asinello, o che fusse suo o che lo tollesse a nolo, e forsi anche che andò a piedi; e più presto mi dà a credere che andasse a piedi e che, volendo Gioseffo pigliar un asinello per Maria, lei gli dicesse che se sentiva gagliarda e che la sua gravidanza non era come le altre: che non la gravava nulla, anzi che la faceva più gagliarda e agile. Però sia come esser si voglia, può esser un e l’altro. Menò Gioseffo un bue per cavar da quello il tributo da pagar a Cesare, cosa che mi pare superflua, essendo quello che si pagava puoca cosa, che per quello non occorreva vender un bue; né meno si legge che Gioseffo avesse campi da lavorare né prati per far feno; e si aveva un bue, bisogna dire che ne avesse più d’uno, perché con un solo non poteva lavorare la terra. Ed era Gioseffo povero, ma si avesse avuto duoi o trei bovi, non poteva esser povero, perché, avendo quegli, bisognava che avesse anche campi. Per l’altra non era Gioseffo lavorator di terra, ma fabro da legname. […] Che questi animali fussero poi de Gioseffo o de altri, lassio giudicare alle mente pie e divote. (Selva, 149)
Alcune sue rappresentazioni, volendo essere realistiche, rischiano non poco, francamente, il ridicolo.
Avendo il Salvator lavato li piedi a’ suoi discepoli era stracco e sudato dalla fatica, perché, essendo stato al meno un’ora e meza ingenochione, pensa, anima mia, come stava il tuo Dio; e forsi che nessuno delli apostoli gli assugiò il sudore che scorreva per quella beata umanità. Oh chi avesse alora veduto il povero Cristo tutto stanco, afflitto, scalmanato! E chi vole sapere quanto fusse la fatica e patimento alora del figliolo de Dio, si metta a lavar li piedi a duodeci uomini che vederà qualche particella della stanchezza che sentiva Iddio di angeli mentre lavò li piedi a’ discepoli. Si levò il Signore il sugatorio che aveva davanti e si ritornò le maniche a suo luoco, e si misse il manto. (Selva, 208)
L’amore verso Cristo
Un Gesù Cristo «ingenochione», «scalmanato», che si tira giù le maniche prima rimboccate, in verità, non l’avevamo ancora visto!
E, d’altra parte, la partecipazione stessa dell’anima di Fra Tommaso ai fatti che narra, l’amore assoluto che porta a Cristo lo fanno più di una volta andar fuori misura.
O caro Dio, che amore è questo? O Signore, ché questo vostro amore vi condusse alla morte. Non vi accorgette voi che l’amor vi inganna? E dove pensate, o sposo de l’anima mia, che vi condurà questo vostro amore, forsi in spassi, in giardini? Ah, non, Signore: che vi condurà in un orto ove patirette cose tale che da dolore spargerette il proprio sangue che scorrerà fin in terra. Non vi accorgette, o maestro, che per amore sete impazito? Pensate forsi di trovar amanti che vi abbi da servire e da amare come questa vostra afflitta Madre, la qualle languisse d’amore? Statte con lei e consolatela. Dove volette andare per star meglio? Che questa tanto vi ama, e pur fatte violenza per partirvi. (Selva, 218)
Domandare al Figlio di Dio se sia «impazito»? Immaginarsi che possa cercare «amanti» nell’orto del Getsemani? Permettersi di riprenderlo perché non consola sua madre? La nostra sensibilità odierna sente tutto ciò come stridente, ma non il clima pre-barocco che iniziava ad amare il motto stupefacente, la metafora sempre più ardita.
O caro Gesù, dove pensave di andare? Credeve forsi che Giuda fusse stato in Gerusalemme per reficiarvi a comprar cibi rispetto il spargimento di sangue che aveve fatto? O che Giuda fusse stato da’ principi de’ sacerdoti per reconciliarvi con loro sapendo che vi portavano odio mortale? E che quella turba venisse per condurvi in Gerusalemme per farvi re de’ Giudei? […] O Dio, fermatevi: che cosa è questa che andate alla morte tanto in pressia? So ben che l’amar vostro è senza termini e misura e vi fa slongar li passi affrettandovi alla morte. (Selva, 227)