Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
La passione di Cristo
Del resto, l’evangelista Matteo non scrive forse quanto segue? «Il traditore aveva dato loro un segno, dicendo: Quello che bacerò, è lui; arrestatelo! Subito si avvicinò a Gesù e disse: Salve, Rabbì! E lo baciò. E Gesù gli disse: Amico, per questo sei qui! Allora si fecero avanti, misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono». (26,48-50). Con l’arresto di Cristo, inizia la sua passione, benché i «coltelli nel suo cuore» siano stati presenti fin dal suo concepimento, come vedremo in un altro capitolo. La metafora della ingratitudine umana per il suo supremo sacrificio ritorna sotto altra forma nel comportamento della folla: la sua volubilità la porta dal trionfo tributato a Gesù nella domenica delle palme, durante il suo ingresso in Gerusalemme (cfr Gv 12,12-15), al disprezzo dei giorni seguenti.
Vedi come se ne sta in mezo a quella turba mal trattato da tutti: nessuno aveva compassione de lui, perché era in man de crude animali come tigri. […] E forsi anche alcuni de quelle gente che più mal trattassero il Signore avevano ricevute delle grazie da lui, li qualli, in vece di ricognosserle, lo trattorno tanto più male. (Selva, 233)
Le citazioni in proposito potrebbero diventare una selva, ma quanto importa qui è sottolineare il significato che ciò assume nello spirito di Cristo.
Sì questo era il dolore che tanto affligeva Cristo, pativa il Signore nel corpo, ma più pativa in spirito vedendo tante anime privarsi della sua cara presenza. (Selva, 233)
È questo il dolore più grande di Gesù, il «coltello» che, da sempre, gli strazia il cuore: dolore più forte di quelli patiti durante l’intera, terribile Passione. La quale Passione è naturalmente descritta da Fra Tommaso sulla scorta dei testi evangelici e anche della tradizione orale, letteraria e pittorica. Vale forse la pena, più che seguire passo passo la vicenda, segnalare alcune particolarità.
Dopo la assai realistica e, per ciò, spaventosa descrizione della flagellazione di Cristo, il Maestro è costretto a discendere la scala che lo aveva portato al cospetto di Pilato.
Era Cristo per le battiture tanto disforme che non aveva aspetto d’uomo, tutto insanguinato in modo tale come il santo profetta aveva de lui detto, che si averia potuto racontare tutte le sue ossa. (Selva, 243)
Le parole di fra Tommaso
Fra Tommaso, in armonia con i tempi suoi, non può esimersi, nemmeno in questo momento di altissimo dramma, dal puntualizzare quanto segue.
E io, ritrovandomi in Roma, feci quella santa scala alcune volte con genochi nudi a mio gran contento, e in essa scala vi sono ancora alcuni luochi ove cascorno quelle sante giocie di sangue, che li fedeli gli mettono li diti e fanno toccar le corone per loro devozione. (Selva, 243)
La natura di predicatore, nel beato Tommaso, è sempre pronta a incitare all’emulazione, su un grado umano, dei passi divini. Nella fattispecie, Fra Tommaso allude alla Scala Santa di Roma, che, raccogliendo una tradizione di fonte medievale, si vuole portata, nel IV secolo, dalla madre dell’imperatore Costantino, sant’Elena. È difficile dire quanto il beato Cappuccino abbia potuto vedere «luochi ove cascorno quelle sante giocie di sangue», considerando che, nel XV secolo, papa Innocenzo VIII aveva fatto ricoprire con assi di legno i gradini per difenderli dall’usura provocata proprio dalle ginocchia dei pellegrini, ma è probabilmente irrilevante ciò, poiché è questo uno dei molti casi in cui l’intenzione è di gran lunga più importante della cronaca.
Altra notazione è quella che consegue alla descrizione della salita al Calvario.
Cominciò Cristo caminare al meglio che poteva alla volta del monte Calvarie, e faceva a se stesso animo, ma era tanta la debolezza che più non poteva star in piedi ed essendo ligato con le mane de dietro, gli causava grandissimo dolore, non si potendo agiutare con le mane né teniere la croce. (Selva, 244)
In Scala di perfezione la versione è leggermente diversa.
Vedi, anima, il tuo innamorato Cristo mentre era condotto al Calvario con la pesante croce in spalla tutto insanguinato. (Scala, 89)
È ovviamente immensa l’iconografia della salita al Calvario, ma in essa Cristo è sempre rappresentato mentre tiene, sì, la pesante croce sulle spalle, ma è libero di aiutarsi in ciò con le mani. In Matteo 27,32, in Marco 15,21 e in Luca 23,26 è addirittura il cireneo che porta la croce, al posto di Gesù. Mentre, con lapidaria tragicità, in Giovanni 19,17 si dice soltanto: «Ed egli, portando su di sé la croce, uscì verso il luogo detto Cranio, in ebraico Gòlgota».
Soltanto Tintoretto (che io sappia), ne La salita al Calvario (1566-1567), ritrae Cristo legato, come, del resto, dietro il Maestro, lungo l’erta, i due ladroni. È a questa immagine che si ispirò Fra Tommaso? Non sarebbe impossibile, poiché essa si trovava (e si trova) a Venezia, nella Scuola di San Rocco: essendo questa punto di arrivo delle processioni dei Battuti, non è inimmaginabile che il Beato l’abbia visitata mentre, ad esempio, era in strada per Udine, nel 1624-25.
Vale ora la pena occuparci di un termine davvero particolare: in decine di luoghi (cfr Selva, 149, 150, 154, 165, 200, 251; cfr Scala, 145, 174, 193, 235, 275, 332, 332, 336, 343, 364, 364, 368, 369 e numerosi altri) è utilizzata la parola «eccesso» (più frequentemente, «excesso»), soprattutto per indicare l’amore di Cristo per l’umanità, specie durante la Passione, ma anche per amori umani. Un esempio.
Cognosco un religioso che da eccesso di amore venirli svenimenti, che, si non facesse violenza, caderia in estremi, in lacrime, in gridori, in clamori, e abbracciar li alberi stringendoli, parendolli di aver il suo diletto Cristo fra le bracce, con altri effetti amirandi. E questo stato eccessivo fa perdere anco li sentimenti corporei. (Scala, 364)
Ora, nel senso comune e attuale del termine, un «eccesso» è qualcosa di negativo, possibilmente da evitarsi. Pare quindi una contraddizione insanabile quella di attribuirlo a Dio Padre, a Cristo, persino a un religioso preso da frenesia d’amore per la Trinità.
Le fonti autorevoli
Occorre, dunque, ricorrere a fonti autorevoli. Il Tommaseo lo definisce «superare», «sorpassare», «sopravanzare», «passare i dovuti termini» e anche «uscir del convenevole oppure dell’onesto». Sembra una bocciatura senza appello, ma in una nota aggiunge: «Deriv. da eccedènte, onde eccedènza». E l’«eccedenza» è, invece, termine positivo. Si pensi, ad esempio, alle «eccedenze agricole» tardo-medievali, stimolo alla ripresa del commercio. Tanto che l’Enciclopedia Dantesca Treccani, alla voce «eccesso» di Mario Musti, recita: «Eccesso – In Dante ricorre una sola volta, in senso traslato, in Paradiso XIX, 43-45: “[Dio] non poté suo valor sì fare impresso |in tutto l’universo, che ’l suo verbo | non rimanesse in infinito eccesso”. Qui sta a significare un’illimitata esorbitanza nell’ordine della spiritualità. Più specificamente nel passo citato è riferito alla smisurata potenza con cui il Verbo, cioè la sapienza di Dio, rimane “infinitamente al di sopra” di ogni creatura terrena (Buti) o di ogni creato intendimento (Lombardi) oppure del contenuto del mondo creato (Sapegno). Nello stesso significato di “grande eccedenza” è variante, in luogo di eccelso, in Paradiso XXIX, 142».
L’excesso è dunque termine positivo, nell’accezione utilizzata da Fra Tommaso, e vanta, anzi, l’autorizzante uso in Dante. Il lettore moderno non dovrà far altro che adeguarsi.
Infine, un’osservazione su un passo particolare di Selva di contemplazione, in cui lo stile narrativo vira verso la preghiera per definizione e, anzi, verso quel particolare genere che è la giaculatoria.
O agnello, o santo Dio, o ineffabile sacramento sustegno e vita de’ cristiani, o fortezza inespugnabile, sacrario di ogni bene, ricchezze che mai veniranno meno, conforto de’ afflitti; o vera segurtà del Paradiso, viatico de vera salute, cibo de’ affamati, cibo che ha in sé ogni sapore, porto della salute, cibo che porta ogni vero bene; o santissimo, amabilissimo e investigabile sacramento, io confesso che voi siete quel pane degli angeli, cibo vero de l’anima mia, rostito e cotto nel forno ardente de l’amor vostro. (Selva, 213).