Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Ciò introduce un nuovo argomento: com’è possibile accettare anche la pena più atroce e perpetua, l’inferno, in nome dell’amore di Dio? Fra Tommaso risponde che «amore» è un termine forse inadeguato per definire questo «bruciare» per Dio, con una passione che non regge il paragone con nulla di terreno, perché ogni paragone sarebbe, oltre che inadeguato, blasfemo, tanto è sublime il rapporto che si può instaurare tra un vero «frenetico» di Dio e il suo Signore.
Ed ad alcuni parerà farsi difficile il capir questa verità, che l’uomo venga in stato tale che per gloria di Dio sia preparato d’andar all’Inferno a patir, non già per esser separato da Dio: ma, quando saranno giunti a quel stato di perfezione ed unione in Dio, capiranno questa verità ed anca cose maggiori. E sì come l’amar vano acceca ed impazzisse gl’uomini tirati da quell’amar vano, sensuale, così chi sarà tirato dall’amor puro di Dio impazzirà, che non temerà né mondo né Inferno, né tormenti né angustie, quantunque grandi siano, anzi, che gl’istessi tormenti li saranno di refrigerio, patendo per il suo Dio il qual tant’ama, sì come s’ha veduto di tenere verginelle, ch’andavano alli martiri con tanta constanza e fortezza che parevano d’andar a nozze, che noi altri il leger le vite loro ci fanno stupire, maravigliare. Oh quanta potenza e fortezza ha il puro amor di Dio, perché non teme cosa niuna per difficile che sia! O beata, o felice anima che ami il tuo Dio con filial amore, poiché a te sola è dato potenza nelli cieli e nella terra, nel Purgatorio e nell’Inferno: sei sopra di tutti i beni, tutti ti sono obedienti. E quello che può un inamorato di Dio lo sa lo istesso Dio, che condescende alle voglie concedendo ad essi di darli quant’addimandano; e Dio stesso incita questi suoi cari. (Scala, 127)
IL FUOCO D’AMORE
Di fronte alla descrizione sempre più complessa di questo «fuoco d’amore», la parola di Fra Tommaso vacilla e teme di non saper rendere in termini umani ciò che pure «vede» con gli occhi dello spirito.
O Dio, o Dio, vorrei dire quello che veggo e sento di questo vostro amore, ma non lo posso dire, né meno lo posso scrivere, perché quello che vedo è tant’alto che la mia lingua balbuziente non ha termini né intelletto per poterlo spiegare: mi resta solo che io gridi ed esclami, mandando voci intonanti al cielo, sfogando il mio cuore con clamori e lacrime vedendo il mio Dio tanto impazzito, inamorato di sì vile creatura quanto è l’uomo mortale. E dirò: o mio Dio, che pare a me che il vostro amore sia un altro Dio, perché, oltre che si legge che ubi charitas, et amor, ibi Deus est [dove ci sono carità e amore, lì c’è Dio (cfr 1Gv 4,16)], veggo anco, o amor mio, che il vostro amore pare che vi commandi. (Scala, 307)
Perché?
O santo ed eterno e imortale Dio, ricoro a voi, che sete il fonte di ogni bene, sete un mare magno di grazie e doni, di virtù, di santità, di carità, di perfezione: oh quanti la maestà vostra ha sommersi in questo amore! O Dio ineffabile, sommergete anco me, povera vile creatura, acciò io resti sommerso da le onde delle grazie vostre, amando voi solo di quell’amore con il qualle volete esser amato da’ servi vostri: altro non pretendo che questo amore. Questa è la passione che io, povero verme, bramo, desidero, ciò amar voi, o Dio consolatore; altro bene non vi adimando, altro Paradiso, né altra fellicità, né altra gloria, né altri contenti io voglio né aspiro, solo voglio questo puro amore, amandovi perché sete dignissimo, meritissimo di ogni vero amore e io degno di ogni male. O Signore, non prolungate più questo amore, venite ormai ad abitare entro il mio cuore, vivificate in me questo santo amore acciò io ardi, abruggi, mi consume e liquefacia l’anima mia nelle lodi, nelle benedizioni vostre, e che io concora con li angeli del cielo in amarvi e lodarvi. E però, Dio d’ogni bene, protesto a la maestà vostra che se volete ch’io vi ami, io dirò che non vi posso amare se voi non date a me questo amore; e dando a me questo amore, aiuttandomi voi, Dio mio, vi amerò in quel modo che volete voi. E questo amore l’adimando a la vostra divina maestà solo per gloria vostra, a confusione de’ demoni, lontano dal mio interesse. (Selva, 285)
accendere lo spirito
È tale la volontà, in Fra Tommaso, di superare la barriera del linguaggio, tale il desiderio di accendere lo spirito di coloro che lo leggeranno, tale l’impotenza lessicale, non sua ma della lingua utilizzata, per esprimere l’empito del suo cuore innamorato di Dio, da scivolare in un pre-barocchismo che non si vergogna affatto di ogni paragone possibile.
O Dio consolatore, consolate me poverello, poi che ardo e abruggio senza fiamma. Non si cusina le fornazzi solo con la braggia, ma ci vole anco la fiamma: avete datto a me la braggia de desiderio, date anco la fiamma de’ sante virtù, acciò, abbruggiando e ardendo, possa con l’aiuto vostro immergermi e somergermi ne l’ardente fornazze de la carità vostra. O dolcissimo Dio, venite ormai, spargete ormai la abondanza delle vostre grazie, acciò io sia un spetacolo a li angeli e a li uomini, acciò io faccia frutti del cielo odoriferi e vagghi a li ochi vostri, vivendo più in cielo che in terra. (Selva, 285)
Ciò, poiché il solo fine dell’intera scala è quello di giungere a questo oblio totale di se stessi, a questa «pazzia», a questa santa «frenesia» che non vede altro che Dio e soltanto di Dio può parlare.
Oh quanto dispiacciono a Dio quelli che cercano il premio in questa vita e che non hanno altro fine che li suoi propri interessi! Il vero servo di Dio non ama, non serve al suo Dio per Paradiso, per gusti, per commodi, né per paura della penna, ma opera per la cosa amata: scordato del suo proprio interesse, solo si riccorda dell’amato suo e tutto fa per far cosa grata a lui; e tutti li patimenti, stenti, fatiche le fa senza ogetto d’interesse, anzi, che ’l vero amore è cieco, perché vede il solo Dio entro l’anima sua, né ad altro guarda ch’al solo compiacimento di Dio, né d’altro si rallegra, si gode se non di veder il suo Dio servito, amato, essaltato; ed è sempre preparato a patire, stentare per la cosa amata; ed ha tanto potere l’amor puro di Dio che chi lo possiede diventa pazzo, frenetico d’amore. (Scala, 106-107)
In questa santa e benedetta condizione.
Dio parla al core e l’anima parla al core di Dio; e che cosa parlano? Parlano d’eccessi dell’amor di Dio, poiché l’anima innamorata di Dio si può dire che la vita sua sia tutta eccessi, stupori e meraviglie, perché vede con l’occhio d’amore quel smisurato amor di Dio e, vedendo cose tali, si liqueffà, si consuma come neve al sole, e come cera al fuoco morendo, ma more d’amore. (Scala, 174)
Piena rivalutazione, dunque, dell’estasi, in alternativa, però, a quella quietista, poiché raggiunta dopo un duro combattimento, una «scala» che porta a essa soltanto a condizione di essere percorsa tutta e del tutto disinteressatamente.
Essendo l’estasi una morte d’amore e di meraviglie che vede l’anima nell’amato suo: muore e revive mentre li passa quell’eccesso mentale causato dalli stupori c’ha veduto nell’oggetto dell’amato suo Cristo. (Scala, 271)
[L’estasi] sormonta di gran longa alli doi di sopra scritti perché questi perdano il moto corporale in modo tale che, tagliandolli la carne, non sentino dolore né fanno moto, come avenne al beato Egidio che se ne stava 7 ore in estasi, e tagliandoli non sentiva, sì come a molti è avenuto. E il serafico Francesco era altamente favorito di questo estasi, che, come riferisce il beato Leone suo confessore e compagno, che, andando in estasi, essendo nei deserti, si levava in estasi anco con il corpo: che alcune volte si levava in aria sino alle sime delli alberi, e altre volte superava li alberi, e altre volte lo perdeva di vista; sì come intrassene a l’apostolo Paolo e di altri. (Scala, 365)
Certo, essa non potrebbe darsi in assenza della Grazia, ma il distinguo fondamentale dal Quietismo sta proprio nella parte attiva che l’anima ha avuto e ha in questo rapporto con Dio, lontanissima da quell’abbandono, in fondo, passivo teorizzato da Molinos e da chi lo aveva preceduto, e poi ripreso da Fenelon.