Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Il convento di Rovereto
Quando Fra Tommaso risalì dal convento di Rovereto verso il Tirolo che diventerà la sua seconda patria, in Val di Non era ancora viva, anzi in costante crescita, la venerazione per il santo eremita Romedio, in particolare presso il santuario di Sanzeno. La vita di quest’uomo del IV secolo, diventato popolare presso gli umili, dovette colpire particolarmente il Cappuccino bergamasco.
Nelle fonti viene ricordato come conte di Thaur, presso Innsbruck. Dopo un pellegrinaggio a Roma e di ritorno in patria, a Trento s’incontrò il vescovo Vigilio e decise di abbracciare la vita anacoretica. Donati i suoi beni alle chiese vescovili di Trento e di Augusta, si ritirò insieme a due compagni, Abramo e Davide, a far vita di penitenza e di preghiera in un romitorio da lui stesso costruito in Val di Non.
Lo innalzò su di uno sperone rocccioso, nelle adiacenze di Tavon e poco distante dalla località di Sanzeno, ricordata per il martirio (29 maggio 397) dei santi monaci Sisinio, Martirio e Alessandro, originari dalla Cappadocia. Inviati in quegli anni da sant’Ambrogio per evangelizzare la Val di Non, essi furono ben presto martirizzati da alcuni pagani del posto.
Quando Fra Tommaso divenne affettuoso amico del medico di corte degli Asburgo, Ippolito Guarinoni, venne a sapere proprio dal Guarinoni che fu lui stesso a favorire il culto di san Romedio nel paese di Thaur.
La povertà, la solitudine che propizia la preghiera, la concentrazione su ogni singolo dolore di Cristo, la mortificazione degli appetiti, caratteristiche dell’eremita Romedio e dei tanti esempi della vita di san Francesco, sono gli stessi elementi che il nostro Beato svilupperà in Scala di perfezione, continuazione di una lunga tradizione di libri dedicati al perfezionamento della religiosità individuale e, al tempo stesso, ripresa attenta del dettato francescano delle origini.
La povertà, del resto, è quella di Cristo stesso.
Essendo gionto, o anima devota, il tuo Dio all’età de anni trenta, avendo passato la vita sua in affani e angustie tanto interne quanto esterne, essendo fin a quella età in continui affani e dolori, aveva patito povertà, fame, sete, persecuzione, freddo, stracchezza, afflizione de’ longhi viaggi […] saziava le moltitudine de affamati con puoco pane, predicava ora in una città ora in un’altra; andava a piedi il povero Cristo nelli aspri viaggi, e pativa delle necessità assai, come fame, sete, fredo, caldo e stracchezza. E quante volte, non avendo da mangiare, scorlava le spiche nelli campi e mangiava il grano; e quante volte, essendo discalzo, urtava con li sacri piedi in pietre e in spine con gran sentimento de dolore. Oh quante volte era sudato e non aveva con che sugarsi! E quante volte entrava nelle città e terre stracco, affannato e setato, e nesuno lo invitava, ove bisognava che andasse mendicando! (Selva, 192-193)
Il che sarà il programma di vita di san Francesco e, più tardi, degli stessi Cappuccini. E tuttavia il Poverello d’Assisi, da questa vita severissima, guadagnava in approfondimento spirituale e in avvicinamento al Figlio.
Imparò Francesco santo del suo maestro Cristo, che non pareva più Francesco ma si trasformò in suo Dio; e tanto operò che diceva: «Tanto spero nel patire che ogni pena mi è gioire»; e la sua regola […] piena di dolore, penitenze, stenti, longhe vigilie, cilici, discipline, con tante asprezze che […] stupore e meraviglia, facendo vita più celeste che terrestre, sì come si vede anco in altri religiosi. (Scala, 370)
Da Cristo nel deserto, dai martiri Sisinio, Martirio e Alessandro, da san Romedio, da Frate Francesco, il beato Tommaso imparò la corretta via per pregare Dio nel modo più intenso.
Quali siano i luoghi per orare a Dio, io dirò che sono luoghi solitari, perché quest’orazione mentale il suo proprio è di cercar luoghi remoti come celle, oratori, chiese, monti, colli, grote, valli, luoghi ombrosi, deserti ed altri luoghi simili. E quando vorrai far questa divota orazione, ti ritirerai in questi luoghi, e prima con la mente tua farai brevemente una raccolta delle tue imperfezioni con proposito d’odiar il vizio e voler la virtù, dimandando perdono a Dio d’ogni tua colpa; e genuflesso a’ piedi del Signore, dimandarai il suo divin aiuto, protestando alla Sua Divina Maiestà di voler spender quel tempo in servizio suo; e poi con la mente tua hai da discorrer e passeggiar per li divini misteri: e questo si fa con un breve discorso di mente, abbracciando quello che vedrai che la mente tua più averà gusto e divozione; ma in particolar dei discorrer sopra la passione e morte del Salvatore, come per essempio la natività, la circumcisione, l’andar in Egito, l’esser nell’orto, la presa, la flagellazione, la dura morte, l’assensione, la gloria de’ beati, le pene del Purgatorio, dell’Inferno, con altre cose simili. (Scala, 87)
Le tecniche di preghiera
Esistono vere e proprie tecniche di preghiera, che consentono una maggiore penetrazione dell’anima nei misteri che le si vanno presentando con la meditazione e, soprattutto, la concentrazione su un singolo punto alla volta.
E non pensi già mai di poter salir tant’alto senza la santa orazione; e quando vorrai far questa santa orazione dei cercar luoghi solitari e rimoti. E quando ti porrai in orazione, non ti dei mettere li divini misteri come cosa lontana: voglio dire che non dei pensar che sia mille seicento anni che Cristo patì per tuo amore, ma ti dei metter in orazione come se allora fusti presente, perché questo orare a Dio presente fa che l’orazione è più devota, muove l’anima a maggior compunzione, muove l’affetto, s’apre il cuore, si solleva con maggior velocità in Dio, muove il cuore a gemiti, muove le lagrime, compatisse con maggior dolore al suo Signor; e ti dei molto imprimere nel cuore e nella mente questi divini misteri. E ti darò un essempio. Quando vorrai orare o meditare il misterio mentre il tuo Dio stava traffitto in croce, ti dei metter in genocchioni sotto la croce come se allora l’avesti presente e con cuor pietoso lo dei rimirare con gl’occhi della mente tua, veder quella beata umanità, considerando che quello è il tuo Dio ed il tuo creatore e redentore; ed hai da veder il Dio dell’anima tua tutto insanguinato dalli duri flagelli, lo vedrai a rivolger il suo santo capo, a rivolgerlo ora in su una spalla ora in su l’altra: ora l’inclinava sopra il petto, ora lo drizzava ed, urtando nella croce con la corona di spine, sentiva estremo dolore. […] Dei, anima devota, penetrar quell’interne: oh quanto erano grandi li dolori che pativa quella beata anima! Oh come era bressagiato quel cuore! Oh quanta sete sentiva il tuo Dio! Oh quante volte, anima fedele, ti parerà d’esser presente, e più presente che se ti fusti trovata attualmente presente! E non devi discorrer in prescia, ma dei ponderar ponto per ponto, come fa uno ch’io conosco, che starà su un sol chiodo le settimane ed anco mesi, trovando abondantissime grazie. E da questo modo d’orare nasce poi abbondantissime lagrime, gemiti e sospiri; alcune volte parendoli di veder il suo Dio in tanti dolori, proromperà in voci compassionando il suo Dio, e sentirà alcune volte certi dolori d’amore che si sentirà ad ardere nell’interno. (Scala, 88)l
La mortificazione dei sensi
Tutto passa, comunque, dalla pratica quotidiana della mortificazione dei sensi.
Un atto dirò di molta perfezione. Sarai secolare; anderai in piazza, vedrai alcuna cosa che il tuo senso molto l’appetisse: e lo vorrebbe avere per mangiare, per gustarsi d’esso con sensualità sfrenata, non essendo quel tal cibo necessario, ma vi sarà la sola gola. E tu t’accosterai per comprarlo, e spenderai otto overo diece soldi e più e meno, sì come sarà la cosa che vorrai comprar. E però dico a te, servo di Dio, la dei rimirar quella cosa che ’l tuo senso vorrebbe, e poi dei levar la mente tua a Dio, e per amor di Dio la dei rinonciare, volendoti privar di quel gusto. E questo le dei far con atti di volontà e ti dei privar di tutte le cose che ’l senso appetisse che non sono però in danno della sanità del corpo, ma dico di quelle che non v’è altro che senso. Ed in queste cose frequentemente ti dei essercitar per far gl’abiti buoni ed ogni giorno doveresti desiderar d’aver qualch’essercizio per poterti essercitare: e quando non averai chi t’esserciti, da te stesso ti dei essercitar con metterti avanti di quelle cose che la natura aborisce ed odia, e con atti remessi frequenti dei mortificarti come se tu l’avessi presente, perché, se bene la cosa sarà lontana, quando farai la parte tua, quand’anco t’averrà qualch’incontro, la passione sarà quasi mortificata, e con agilità e facilità la passione non ti farà tanta ribellione e con poco essercizio restarà vinta ed obediente alla raggione. (Scala, 129)