Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento e proclamato beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Contro l’invidia
Il messaggio di Fra Tommaso da Olera è tutto volto al positivo, in coerenza, del resto, con la tradizione cappuccina che, pur non certo ignara delle storture del mondo, guarda alla vita terrena come a un’occasione per cogliere i semi fertili lasciati da Cristo a beneficio di quegli uomini che li vogliano e li sappiano far germogliare e coltivare. Tuttavia, ciò non significa che il beato Tommaso non abbia parole di biasimo nei confronti di certi comportamenti che, più di altri, urtino la sua sensibilità. Tra questi, riserva, non certo a torto, particolare avversione all’invidia, all’uso improprio del lusso e all’avarizia.
L’invidia inizia ben presto, nei confronti di Gesù: giovanissimo, si reca al Tempio e discute con i dottori. Le reazioni di costoro, com’è da attendersi, non sono tutte favorevoli.
L’unigenito suo figliolo […] se ne stava in mezo de’ dottori che restavano admirati e stupiti de tanta sapienza; e fu rimirato da ognuno, dicendo intra de essi: «Oh che aspetto venerando! Questa è sapienza che viene dal cielo: de chi è lui figliolo e de che patria?». Alcuni de essi se godevano in sentire così ben parlare questo figliolo, altri invidiandolo si vergognorno disputar con un fanciullo de età così tenerella, e chi diceva una cosa, chi diceva un’altra. (Selva, 185)
L’inizio
Non è che l’inizio, poiché l’invidia cresce con il crescere dell’apprezzamento che altri ricevono al posto nostro. E quale sarebbe dunque stata, da parte, in fondo, di quelle stesse persone, quando Cristo avesse iniziato a predicare, a fare miracoli, a raccogliere intorno a sé fedeli o anche soltanto curiosi?
Era cressuto il Signore in tanta fama e stima che fu sequitato da gran moltitudine de popoli, qualli lo chiamavano profeta grande, Salvatore, figliolo de Dio vivo; lo chiamavano Cristo e Messia con altri attributi, e lo volevano far re loro. Era il Signore applausato e da tutti reverito e adorato, perché vedevano li segni e miracoli grandi con resuscitazione de quatro morti: e tutto in propria virtù, perché commandava a’ venti, al mare, a’ monti, alle infirmità, a’ demoni, alle pietre e altre cose insensibile, e il tutto gli ubediva. Solo li principi di sacerdoti e rabini sdegnati rabiavano contra questo mansuetissimo agnello Cristo perché li riprendeva in publico e privato delle loro sceleragine, minacciandogli eterna pena: e così portavano odio mortale al Salvatore, e, non lo potendo sopportare, facevano consiglio contra di esso per farlo prendere e dargli morte. Ma perché lo vedevano in gran credito appresso il popolo, non avevano ardimento di farlo prendere in publico e comminciorno persequitarlo, tassando la vita sua e de’ suoi descipoli e insieme li suoi miracoli. Andavano per il tempio, per le sinagoghe, piazze, ridutti e botteghe, dicendo ogni male del Salvatore, mettendolo in disgrazia del popolo. E tiravano alla lor opinione quanti potevano e forsi anche pagavano gente aciò dicessero male de Cristo, ordinando che osservassero le sue azione per aver occagione di accusarlo. E così molti ne dicevano male, lo tassavano per bevitore da vino, che non si lavava le mani quando andava a mangiare e che pratticava con Samaritani, che non osservava il sabbato e che era seduttore del popolo, che voleva distruggere il tempio volendolo refar in trei giorni e che si faceva de uomo Iddio, e altre calumnie. E così da queste cose pigliavano occagione di dir ogni male al Salvatore in publico e in privato, murmurandone alla presenza del popolo, mettendolo in cattivo concetto. E quanto facevano per aver da accusarlo e darlo alla morte, acioché, avendo il popolo mala opinione de lui, potessero farlo prender senza pericolo! (Selva, 194)
È quello che oggi si potrebbe definire un «linciaggio mediatico», tanto le vie dell’invidia e della calunnia sono simili in ogni tempo e in ogni luogo, ma qui tanto più gravi, in quanto rivolte alla seconda persona della Trinità!
L’invettiva
Ecco, allora, scattare l’invettiva di Fra Tommaso, con uno sdegno e con un’eloquenza che si sarebbe tentati di paragonare a Dante [«Perché s’appuntano i vostri disiri | dove per compagnia parte si scema, | invidia move il mantaco a’ sospiri» (Purgatorio, XV, vv. 49-51)].
Or quanto male fa nel mondo l’invidia, la qualle è così fiera e pestifera bestia che non perdona né a santi, né a uomini, né a donne, né vechi, né gioveni; non lassia l’invidia veder il bene, né virtù, né perfezione; fa l’invidia parer il santo triste e il triste santo, la misericordia converte in severa giustizia, fa parere il bianco negro e il negro bianco. Ed è tanto antica questa invidia che cominciò in cielo tra li angeli, che una parte de loro volevasi aguagliare: e Iddio, scacciando questa invidia dal cielo, precipitola ne l’Inferno, ove, sdegnata, questa pestifera bestia la sfogò la sua ira contra il povero Adamo ed Eva, andò a trovare Caino e fece che per invidia amazzasse suo fratello Abelle.
Oh quanto male ha fatto l’invidia nel mondo! Oh quante rovine e strage de regni, città, regi, principi, nobili, ignobili, ricchi, poveri e religiosi e de ogni sorte, gente de ogni stato! E non cessa né cessarà già mai fin che durarà il mondo, facendo tanto male con dannazione de molte anime, si bene che al fine sarà rinchiusa nel fuoco eterno, con suoi sequaci arderà perpetuamente. E si l’invidia ebbe ardire di persequitare il figliolo de Dio, quanto magiormente persequitarà te amico de Dio. (Selva, 194-195)
E questa elencazione di coloro che possono cadere, benché in apparenza insospettabili, nella turpe invidia non fa che anticipare (benché, in verità, nel testo, venga dopo) la particolare attenzione che il beato Tommaso rivolge al mondo delle monache, lui che, in quel mondo, svolgeva un’attiva opera, sia di fondazione di monasteri femminili, sia di conversioni a queste severe regole.
La Signora con che pompa se ne stava in tanta povertà quella ch’è regina delli angeli e Madre vera di Dio. Altra abondanza non era in quel palagio regio si non estrema povertà e necessità. E quando, o religiose, o vergine, averette contemplato la povertà di Gesù e di Maria, ognuna di voi se revolgi a se stessa, e con interno sentimento rimiri la sua cella piena di ricchezze; troverà ogni commodo: celle tappezzate, casse piene, letti morbidi, veste sopra veste, cibi delicati, quadri sopra quadri; che queste sono cose esterne: ma quello che più importa, ognuna rimiri ne l’interno, che io non posso più oltra; e pur averanno fatto voto solenne di povertà. Oh quanto è lontana da voi la povertà del vostro sposo! Debbino le spose conformarsi con il suo sposo: e quanto oggidì sono lontane le monache dal sposo loro! Rimirate, o verginelle, la povertà de l’amato vostro sposo e si vi trovate esser lontane da lui, ritornate a lui. E per meglio ritornar a Sua Divina Maestà andate nel presepio, che vi insegnerà la via della povertà tanto diletta a questo Signore: dove vederette il suo letto che è la dura terra, la sua camera è il presepio, il suo piumazo è il duro fieno, li linzuoli sono poveri pannicelli, li scagni e carege sono la nuda terra, le tappezarie sono telle de’ ragni, il pavimento di questo palagio regio è fieno e sterco d’animali e li profumi sono li odori di animali, il povero Gesù fredo aghiaciato: la sua Madre povera derelitta non aveva né anche latte nelle sue beate mamelle, che bisognò ricorrersi al vero fonte aciò empienisse quelle per popare il unigenito figliol di Dio. E quando averette contemplato la povertà del vostro amato sposo, ognuna si metti le mane al petto e veda si è vera sposa e serva di Dio. O tempi lagrimabili, che le spose de un tanto povero sposo vivono in tante commodità, e dirò sensualità, senza memoria squasi del loro Dio, lontane da sì caro sposo, colme d’ogni commodi! Che questa pur non è la via che ci insegna Cristo, il qualle vi chiama alla croce, alli disagi, alle mortificazione e negazione della propria voluntà, vi chiama alla povertà: udite la voce sua. (Selva, 154-155)