Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura del frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinque e Seicento, Tommaso da Olera, proclamato beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, un anno con un mistico del Cuore di Gesù” di Sergio Calzone. Le riflessioni di oggi.
Le riflessioni
Meno tenera, ma altrettanto avventata, la supposizione della pagina successiva, sempre riferita a questi sovrani di regni lontani e orientali: «E chi sa che non fussero anche discesi della stirpe e famiglia di Giobe» (Selva, 157). Felice ingenuità (oppure voluta?), posto che Giobbe, conosciuto in quel caso come Ayyūb, ha un posto d’onore anche nella religiosità islamica. Ultime ma non meno interessanti illazioni di Fra Tommaso si riferiscono all’uso che Maria fece dei tesori lasciati dai Magi. Effettivamente, la vita povera e nascosta condotta dalla Sacra Famiglia anche dopo aver ricevuto oro, incenso e mirra doveva ben essere giustificata, agli occhi di un attento frate questuante, com’è stato per tanto tempo Tommaso.
La Selva
Egli seguì perciò, nella Selva, le tendenze che sarebbero state naturali nel suo tempo a spiriti caritatevoli e che, forse, non erano estranee alla sua esperienza di grande amico del medico Ippolito Guarinoni. E in questa povertà era ammaestrata Maria da Iddio, e sapeva che la voluntà de Dio era che più dispensasse quelli tesori. […] Commandò Maria al Santo Gioseffo che pigliasse quegli tesori e che andasse in Betlehemme e che cercasse li ospitali e luochi poveri, e che disponsasse quelle ricchezze. (Selva, 162-163). Naturalmente, noi sappiamo che gli «ospitali» sono una creazione, a voler essere generosi, tardo medievale, per cui pare trattarsi di un’altra prova della santa ingenuità di Tommaso, quella di immaginarsi la società gerosolimitana organizzata, a un di presso, come quella contemporanea a lui. O che non si trattasse, invece, anche e soprattutto, di un discreto invito alla carità rivolto a «Madama Serenissima Arciduchessa d’Austria, meritissima sposa del potentissimo Leopoldo Arciduca d’Austria e Tirol» (Selva, 119) come recita la già un po’ baroccheggiante (con tutti quei superlativi assoluti) dedicatoria di Selva di contemplazione?
Prime considerazioni stilistiche
Prima di immergerci nel corpo vivo dei testi di Fra Tommaso d’Olera, è necessaria una prima ricognizione (un’altra seguirà più avanti, quando si saranno meglio delineati certi modi di scrivere propri dell’autore) sul suo orizzonte culturale e, più in particolare, stilistico.
È noto come egli si dica ripetutamente (magari con parole diverse) «uomo rozzo, semplice, idiota, senza lettere» (Selva, 283). Chiariamo subito che il termine «idiota», nell’accezione oggi più utilizzata, ha poco a che fare con quanto va scrivendo Tommaso. Mi sia consentito riportare qui le citazioni suggerite dalla Treccani, illuminanti per il vero significato inteso dal nostro autore: «molto più conosce Iddio un santo idioto che un savio peccatore» (Cavalca); «come tu sai, io non ho la grazia del predicare, e sono semplice e idioto» (Fioretti di San Francesco); «parole le quali lo Spirito Santo sopra la lingua dell’uomo idiota poneva»(Boccaccio); «noi laici ed idioti» (Della Casa). Ciò per chiarire fin da subito che l’«idiota» di Tommaso è in questa tradizione, significando, dunque, semplicemente «ignorante».
Le citazioni
Sgombrato questo possibile equivoco e sottolineata, inoltre, la felice eccezione che ha permesso a questo frate laico di imparare, in deroga alla legislazione cappuccina dell’epoca, a leggere e scrivere, sebbene tra i 18 e i 21 anni, resta da capire quali fonti egli possa aver avuto, a malgrado la sua dichiarazione, molto in armonia con le convenzioni programmatiche controriformiste e cappuccine in particolare, di ispirarsi unicamente alle «preziose piaghe del crucifisso». Le numerosissime citazioni che tuttavia egli introduce nei suoi testi tradiscono, non soltanto logici e ovvî rimandi all’Antico e al Nuovo Testamento (Genesi, Deuteronomio, Giobbe, Salmi, Proverbi, Cantico dei Cantici, Isaia, Geremia, Lamentazioni, Daniele, Michea, Osea, Siracide, Zaccaria, Matteo, Marco, Luca, Giovanni, Lettera ai Romani, Prima e Seconda Lettera ai Corinzi, Lettera ai Galati, Lettera ai Filippesi, Prima Lettera a Tomoteo, Lettera di San Giacomo, Prima Lettera di Giovanni, Apocalisse, con un’evidente predilezione, palese soprattutto in Scala, per i Salmi e per il Cantico dei Cantici), ma egli stesso dichiara di aver avuto presenti san Cassiano, De institutis coenobiorum e, dello stesso, le Collationes e, poi, Domenico Cavalca (lo stesso che utilizza, come si è visto, il termine «idioto»), Vite de’ Santi Padri. Mentre è difficile immaginare che non abbia almeno sentito parlare della Legenda aurea di Jacopo da Varazze, che estese la propria diffusione proprio fino al secolo di Fra Tommaso.
La paratassi
Quanto tutto ciò e altro ancora (si vedano le assai documentate introduzioni di Alberto Sana a Selva e a Scala, intitolate, rispettivamente, Un altro «Idiot savant» e Per via di perfezione) possano aver influenzato la sua prosa, unitamente all’uso di un saporoso linguaggio «italo-veneto», rappresenta materia che è bene lasciare ai filologi. Si possono però fare alcune considerazioni stilistiche forse non marginali. Ad esempio, l’uso della paratassi, cioè di periodi a frasi coordinate, è larghissimo: se non fosse termine ormai logoro per l’abuso che se ne fa nei mass media, lo si potrebbe definire invasivo. Ciò, da una parte, rimanda a un utilizzo elementare della lingua, proprio dell’«uomo rozzo, semplice, idiota, senza lettere»; ma, dall’altra, pare riflettere influenze dovute all’ascolto della Legenda aurea: poniamo a confronto due brani, l’inizio della Historia de Sancto Thoma Apostolo, di Jacopo, e una frazione di Selva, in cui si descrivono le angosce di Maria nel preparare il piccolo Gesù per la circoncisione. Scrive il primo. «Essendo l’apostolo Tommaso a Cesarea, gli apparve il Signore e gli disse: “Il Re dell’India Gundoferus ha inviato il governatore Abban alla ricerca di un uomo esperto nell’arte architettonica. Sono venuto, quindi, e ti manderò da lui”. A cui Tommaso: “Signore, dove vuoi, mandami alle Indie”. A cui Dio: “Va’ sicuro, perché io sarò il tuo guardiano. E quandoritornerai dalle Indie, verrai a me con la palma del martirio”. A cui Tommaso: “Sei il mio Signore e io sono tuo servo: sia fatta la tua volontà”». (Ovviamente, i grassetti sono nostri, a mostrare il ripetersi del motivo paratattico del «A cui»).