Come ogni martedì torna la rubrica dedicata alla figura di Tommaso da Olera, il frate cappuccino vissuto a cavallo tra Cinquecento e Seicento e proclamato Beato nel 2013. Il testo è tratto da “Tommaso da Olera, saggezza umana e sapienza divina” a cura di Clemente Fillarini, Messaggero di Sant’Antonio Editrice.
La riflessione di oggi
Prega questo caro puttino [Gesù] acciò ti dia questo dono di povertà, che, imitandolo qui in terra, tu possa poi goder con esso le ricchezze del cielo (I 155).
È Gesù il modello che dobbiamo imitare, come fecero i santi, canonizzati o no. Tante volte ci siamo sentiti dire: «Fa’ come quello», un invito cioè a imitare una persona per qualche qualità che a noi mancava. Spesso però ci sono posti sotto gli occhi vari “personaggi” che pensano e si comportano con tanta libertà e sicumera, e i giovani soprattutto sono indotti a imitarli, pensando di diventare chissà chi, di trovare chissà quale felicità. Ben diverso è invece l’insegnamento di fra Tommaso.
«Vengano ora i devoti e amici di Dio e imparino la perfetta umiltà del Figliolo suo in questo atto che fece di inginocchiarsi con maniche rivolte, senza sopravveste, con un asciugatoio avanti agli apostoli» (I 205). «O anima devota, prepara la tua vita per imitare il tuo amato Cristo in quello che potrai» (I 229), «meditando, gemendo e lacrimando la vita, la passione e morte del nostro redentore […] e con spirito umile imitar quel Dio autore della vera e increata vita, amando e servendo a un tal Dio, pieno e colmo di pietà, bontà, amore e carità» (I 119).
«Oh, quanto è dolce cosa imitar Cristo!» (IV 222). «E però, vedendo gli amici miei che dovevano imitare me, suo Dio, mi affliggevo in vedere che dovevano patire tanti atroci tormenti per mio amore, sì bene da me sarebbero stati premiati di corona eterna» (II 317). «Qual intelletto umano potrà capire che nell’amaro si ritrovi il dolce, nel male il bene, nelle fatiche riposo, nelle bassezze gloriosa altezza e gloria? Eppure i miei amici gustano quest’alta sapienza, la quale s’impara nella mia imitazione» (II 306), ma «pochi si trovano che attendano a questa pratica certa, veridica, palpabile, della croce, dell’imitazione di Cristo» (II 352).