Ci sono mattine nelle quali, entrando in bar, hai la sensazione che la gente non abbia desiderio del “caffè e cornetto”, ma solo della sua dose quotidiana di pettegolezzi. Come un tossico che, alzandosi, ha l’urgenza di trovare una dose quotidiana di eroina. “Me l’ha detto un uccellino!” è il massimo della eleganza che sentirai mentre si inventa un’insinuazione. Oppure si usano verbi senza il soggetto: “Dicono, raccontano, lo san tutti”. Poco importa che senza soggetto, verbo e complemento oggetto un’affermazione goda di zero senso: è il cruccio per il quale “danno” la vita le maestre alle elementari. La gente mette il becco ovunque: ascoltandola, si direbbe che l’uomo discenda dalla gallina e non dalla scimmia. Distorcere un fatto, insomma, è trasformare la verità ad uso e consumo della morbosità. Al bar, in parlamento, nelle chiese (purtroppo).
I pettegolezzi
Attenzione, però, che di pettegolezzi si può anche morire: la storia è zeppa di gente suicidatasi per pettegolezzi diventati insopportabili, mortali: su di un aspetto morale, sul genere sessuale, sulla rettitudine. Si (s)pettegola per un evidente indice d’ignoranza: sei convinto che se il tuo vicino di casa si rompe la gamba (grazie al tuo aiuto), tu camminerai meglio. E per una quota di spocchia: la presunzione che tu sia migliore dell’altro che denigri. Nel Siracide, un libro della Scrittura Sacra frizzante in materia, si legge: «Un colpo di frusta produce lividure, ma un colpo di lingua rompe le ossa» (28,17). Al netto di tutto il resto, come si potrebbe chiamare un pettegolezzo, magari infondato, che porta una persona a togliersi la vita? “Concorso in suicidio”, forse, più che una semplice “istigazione al suicidio”. Chi pensa che si esageri, forse non è ancora entrato nel tritacarne di una calunnia ingegnata ad arte: non è tanto quello che dicono su di te, ma quello che sussurrano, magari inventandolo di sana pianta.
Il tarlo che rode il legno
Intanto il pettegolezzo và, senza esser più controllabile: come un tarlo che rode il legno di ciliegio senza venire visto, senza esser più capaci d’arrestarlo. E certa gente, purtroppo, ci lascia la pelle: strozzati da quel filo sottile che viaggia alla velocità della noia. E che il mondo sembra stimolare: una volta se qualcuno si faceva gli affari altrui lo bollavano come “pettegolo”. Oggi viene insignito della qualifica di “social media addicted”. Platone, anche qui gigantesco, suggerisce di non addentrarsi nel pollaio: «Se la gente parla male di te, vivi in modo tale che nessuno possa crederle». Reggere un pettegolezzo è ricordare a chi sparla alle spalle che l’unico a contemplare il suo ragionamento è il nostro sedere. (Sulla strada di Emmaus).