Dal divano, collegati, l’Ariston non sembra così distante com’è realmente: con la televisione ultra piatta, quasi cento pollici, sembra d’essere lì, a due passi dal palco più famoso d’Italia. Comodissimi, accarezzati dalla conduzione, giusto leggermente affaticati dalla giornata trascorsa. Sanremo è Sanremo! Biasimato, screditato, offeso è il festival che da anni contribuisce a costruire e rafforzare l’italianità: poco importa se per negazione o per approvazione. Tanto che, a dar retta a chi ci sale, quel palco procura sempre un po’ di vertigini e d’emozione. Non solamente a salirci, ma anche ad ascoltare, facendo proprie, le parole che da quel palco arrivano dentro casa. Le parole in musica, i monologhi, le parole sospese: nessuna, di quelle pronunciate, passerà inosservata. Chi le pronuncia sa che le parole possono essere proiettili, ma anche squadre di soccorso.
Il palco dell’Ariston
Le parole della “belva” (televisiva) Francesca Fagnani che, l’altra sera, han usato il palco dell’Ariston come piede di porco per aprire le porte di un carcere, quello di Nisida (NA), e mostrare all’Italia ciò che si ama tenere nascosto sotto il tappeto: che dentro le carceri ci vive una fetta d’Italia, in perpetuo bilico tra la vita e la morte, ad un semplice passo sia dalla vita che dalla morte: «Il carcere non è ancora la morte, benchè non sia più la vita» scrisse il papà de I Miserabili Victor Hugo. La Fagnani, sul palco di Sanremo, è una postina della voce, presta la sua voce a chi, in questo momento, non ha più diritto di voce, men che meno di parola: «Io mi pensavo che la felicità si comprava dottorè» le risponde uno di quei ragazzi. Ragazzi le cui storie, nascoste dentro le parole del suo monologo, assomigliano tantissimo al parente screanzato, al cugino cattivo, che il giorno di Natale viene fatto accomodare nell’angolo della sala da pranzo perchè nonna non si scandalizzi. Parole che ospitano un grido felino: “Non dimenticateci!” Per non dimenticare che, in ogni casa, il bimbo che ha più bisogno d’essere aiutato lo chiederà sempre nella maniera più screanzata.
Il carcere
«(Se tu tornassi indietro?) Sarei andato a scuola, dottorè». La risposta che non ti aspetteresti da quelle voci tenere e già cavernicole, da quei volti che sono miscuglio di rabbia e gentilezza, di bestemmia, di spirito: più che la repressione, dunque, la scuola. D’altronde basterebbe varcare le porte d’i un penitenziario dotato di una scuola per accorgersi di cosa sia capace la grammatica italiana. D’essere addirittura più sexy della delinquenza. Visto, però, che per provarlo bisognerebbe entrarci dopo aver commesso qualcosa, più che “provare per credere” stavolta “fidiamoci per credere”. Tanto più che, stavolta, l’ha detto anche il Festival.