Mi è sempre piaciuta la “caccia al tesoro”. È semplicissima: si nasconde un tesoro in un luogo segreto per poi, centellinando gli indizi, dare la possibilità di mettersi alla ricerca. Un gioco nel quale è nascosto il tutto dell’esistenza: desiderio, nascondimento, ricerca e scoperta, inquietudine e stupore, batticuore e rivalità. Un gioco che mi ha sempre consegnato un felice sospetto: “In ogni frammento dell’esistenza, c’è un tesoro nascosto per te: vallo a cercare, per conquistartelo!” In questo gioco riconosco la mia prima forma di sacro dentro il profano apparsa agli occhi: profano è il regno dell’esperienza comune, della vita feriale, del lavoro, di ciò che è limite. Il sacro, invece, è la potenza, sicurezza, forza che rende stabile tutto ciò che è feriale. Sacro è il giorno della domenica, profano è tutto quello che dal lunedì porta alla domenica: entrambi, però, si spartiscono lo spazio della medesima settimana. Tutti e due assieme.
La più grande caccia al tesoro
Il cristianesimo racconta della più grande caccia al tesoro mai giocata. Ha avuto inizio, seguendo l’indizio dell’evangelista, nell’attimo in cui «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). D’allora – fu il primo Natale della storia – nulla di tutto ciò ch’è profano potrà dirsi esente dall’essere un’abitazione del sacro per eccellenza, addirittura di Dio. Quella cristiana è la storia di un Dio che, fattosi uomo, gioca la sua sacralità infilandosi, come un palombaro, nello scafandro del mondo profano. Per poi viaggiare “in borghese” nascosto nel mezzo di un’umanità che, essa stessa, certe volte non s’accorge di ospitare una presenza così in se stessa. Che il sacro, poi, non solo abiti il profano ma accetti d’essere profanato dal mondo profano, è il grande mistero del Venerdì Santo. Un aspetto che mi incuriosisce quand’incontro “mio fratello Giuda”: dovette dargli un bacio perchè i soldati riconoscessero chi era l’Uomo da arrestare. Non l’avesse indicato col bacio, non aveva nessun indizio che Lo differenziasse dagli altri undici apostoli ch’erano con Lui. Piccola minuzia di cosa voglia dire che la sacralità, quando abita il profano, s’immedesima al punto tale da faticare a riconoscerla senza una predisposizione a lasciarsi stupire da un qualcosa di diverso. Da un dettaglio capace di farti riconoscere, nel profano, la nitidezza di ciò che profano non è. Ci sono anime, poi, che incontreranno e riconosceranno Dio nel peccato: il punto più profano diventerà il più sacro.
Dostoevskij
Lo scrittore russo Dostoevskij, in questo, mi è maestro dalla prima volta che l’ho incontrato. Leggendo le sue pagine – e finisce sempre che sono le sue pagine a leggere me, non viceversa! – è come se mi dicesse: “Attenzione! Ogni evento, anche il più squallido, è un luogo nel quale potrai scoprire un amore più grande di qualsiasi oscenità”. La galera, con le sue anime sventrate dal male, aggiunge carne a quest’invito: è qui, nel cuore dell’uomo, dove il diavolo e Dio stanno giocando la loro partita che il sacro ha la possibilità di dimostrare la sua differenza. Di più: che il profano, quando viene carezzato dal sacro, è capace di riconoscere che dentro sé, magari a sua insaputa, c’era come un magnete che, rilevato il contatto del bene, inizia a creare dei riverberi. Capaci di conversione.
Il sacro
Il sacro non è un luogo off-limits. A guardarlo da fuori è un luogo come tutti gli altri, certe volte è un paese che condivide col vicino municipio e cimitero: ciò che lo differenzia è la sua capacità di trattenere la memoria del bene, del vero e del bello. Nella mia terra, il Nord-Est, il sacro possiede l’umiltà dell’umiliazione: dietro lo squallore della bestemmia, c’è la tensione di un animo che, profanando il nome santo, in un certo senso ne riconosce la pregnanza. Il cristianesimo non è per gente molle come budini: prevede fuoripista d’azzardo. Ama nascondersi nel profano più vile per combattere l’abitudine di chi è abituato a Dio: «Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti. Che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti» (Anselmo di Cantebury). È in un gesto profano, il bacio di Giuda, che sfolgora l’amore sacro: «Amico, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo?» (Lc 22,48). Parole che, a Giuda, illuminarono il suo stesso sacrilegio. (Sulla strada di Emmaus).