E’ stato condannato per un reato disgraziato: lui, di giovane età, non ha opposto resistenza. La giustizia gli ha detto “quanto” pagare: tot anni. Lo stato gli ha detto “dove” pagare il conto: nella gattabuia di una cella di galera. Lui, tra il “quanto” e il “dove” ha scelto “come” pagare il suo conto in galera: “Giuro che da qui uscirò in piedi!” si è detto quella notte quando, all’improvviso, il suono del campanello l’ha svegliato. Lui, anche la sua famiglia: ciò che rimaneva di quella che un tempo era stata la sua famiglia. Prima del suo gesto infame, prima della denuncia, prima della slavina. Quand’è entrato, il cuore era una mela-cotta: era il mostro che tutti, anche dentro, andavano fuggendo. L’anno scorso, nel giorno del Giovedì Santo, i suoi piedi sono passati nella centriguga delle mie mani che, per un gioco di prospettive, erano le mani del Cristo. Finita la messa, ha voluto dirmi la sua, con gli occhi lustri: “Io sono Giuda: faccio schifo persino a me! Ma tu, quando mi hai lavato i piedi, mi hai fatto sentire amico di Gesù”. Detto da lui, quell’acqua prese la voce di un gorgoglìo di ruscello festoso. Sono annegato in quella poca acqua sporca nel catino.
Non è annegato lui. Dopo mesi, un giorno passo dalle parti della sua cella: entro, beviamo un caffè assieme, mi racconta del dramma che sta vivendo sua figlia. Quella con la quale si è complicato la vitaccia. “Non riesco a togliermi di dosso quell’acqua della lavanda dei piedi, don – dice -. Di notte, ogni tanto, mi sembra di sognarmi Gesù che mi lava lui i piedi”. Non ha la faccia di chi sta per delirare: sta parlando seriamente, a bassavoce per non essere sentito e deriso, con gli occhi bassi di chi quasi s’imbarazza a raccontare. Ma, pur volendo, non riesce a fare a meno. “Cioè ti sogni Gesù?” gli chiedo. Mi ha sempre incuriosito, se incontrassi Giuda, sapere com’è il volto di Gesù quando lo guarda. “Sì, ed è bellissimo quando mi guarda. Anche se è serio: però non mi fa paura”. L’ascolto come uno spettatore ascolterebbe una sinfonia di Beethoven. “Gli parlo, anche: Lui mi risponde con dei movimenti del viso”. Capisco di avere davanti un Giuda-artista. Il mio amico Antoine de Saint-Exypéry, nel frattempo, mi ricorda di quella volta che mi ha raccontato del suo viaggio in treno, quando incontrò dei minatori polacchi di ritorno a casa. Smunti dalla stanchezza: «A tormentarmi non è quella bruttezza. Mi tormenta che in ognuno di questi uomini c’è un po’ Mozart, assassinato». In cella, che mi sta parlando, c’è un Mozart, assassinato. Se si risvegliasse, cambierebbe qualcosa?
Per mesi, incontrandomi, mi ha sorriso sotto il suo pizzetto: “Ti sto preparando un regalo! mi ripeteva. Un regalo non si annuncia, pensavo tra me: se l’annunci è già indice di una bellezza che non si riesce proprio ad arrestare. A forza di dirmelo e di non darmelo mai, questo regalo, me n’ero proprio dimenticato. Non se l’era dimenticato lui: “Ci è voluto del tempo: ho dovuto aspettare che tornasse ancora a guardarmi, che me lo fotografassi bene. E poi che lo disegnassi” mi dice con il suo dono in mano. Me lo consegna il Venerdì Santo di quest’anno: è passato un anno e un giorno da quella lavanda dei piedi che l’ha fatto sentire amico di Gesù. “Ecco il mio regalo per te” mi dice, mettendomelo tra le mani. “Promettimi solo che non lo regali: tre mesi ci ho impiegato per farlo”. Quando lo guardo, il mio cuore va in tilt: «Ecce homo, Marco!» Lo contemplo, contemplo il mio Giuda-artista, me lo abbraccio forte. Trova il tempo per darmi un’altra botta: “E’ pensieroso, non è arrabbiato quando mi guarda. Se ti dico che ogni tanto si gratta la barba mentre mi guarda, tu cosa mi dici?”
Lo guardo, mi guarda: sono due volti che mi (ri)guardano. Lo appendo all’istante nell’anima: “Giuda, Ecce homo, china su carta, 2024 – Pinacoteca galera di Padova”. Tra le mani ho un batticuore. Il Giuda di galera a me, prima di tornarsene in cella: “Mai giocare col cuore: alla fine ci batte”. È il risultato della partita di Pasqua: incanto batte emozione a mani basse. Piango.